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Paesi sicuri, ecco l’ennesima esondazione dei giudici

Più la nozione viene dilatata, meno stati sicuri fra quelli di emigrazione possono essere individuati. Il Tribunale di Bologna ha già rinviato il nuovo decreto alla CGUE

italia albania migranti © Oleksandr Filon tramite Canva.com

A quanto mi è stato dato di capire il Tribunale di Roma non avrebbe confermato l’attribuzione di appartenenza a stati sicuri di immigrati provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh per essere questi paesi indicati come sicuri ma non al cento per cento nello stesso elenco del Ministro degli esteri, come invece richiesto dalla recente sentenza della Corte di giustizia Ue. Il che sarebbe stato in contrasto con l’accordo Italia-Albania, per cui il trasferimento previsto era solo quello relativo a maschi maggiorenni provenienti da stati sicuri.

Tutta l’attenzione che ne è conseguita si è concentrata sulla conseguente debacle di quell’accordo, proprio all’indomani del costoso apprestamento dei siti destinati al ricevimento, ma così i rimpatri per quei Paesi risulterebbero impraticabili sempre e comunque, a prescindere da un’eventuale tappa in Albania. Come detto, i giudici di Roma hanno chiamato in causa la sentenza della Corte di giustizia, che, in relazione al caso affrontato del cittadino moldavo dato per proveniente da uno stato sicuro nel suo intero territorio, concludeva non potersi considerare tale la Moldavia, per la defezione della Transnistria.

Dunque, argomentano i nostri giudici, se è lo stesso Ministero degli esteri a considerare Egitto e Bangladesh sicuri, ma con eccezioni rispetto ad alcune categorie, non resta che prenderne atto, quei Paesi non lo sono come dovrebbero esserlo interamente all’interno dei loro stessi confini.

Se così stanno le cose, verrebbe da dire che una volta fissato per decreto legge un elenco di paesi sicuri in cui riappaiono Egitto e Bangladesh, questa volta senza eccezioni, verrebbe meno l’argomentazione fatta valere nelle decisioni del Tribunale di Roma. Ma il Tribunale di Bologna ha già rinviato il nuovo decreto alla Corte di giustizia dell’Ue.

La nozione di paese sicuro

Ora si può dire ci sia una nozione primigenia di uno stato sicuro, cioè di uno capace di assicurare una copertura di sicurezza al suo interno, senza guerre civili, milizie armate, zone e situazioni di ingovernabilità. Da qui, però, la nozione si è venuta allargando, fino ad includere se non una struttura democratica all’europea, certo l’osservanza di diritti civili minimi e comunque dei diritti umani.

Naturalmente più la nozione viene dilatata, meno stati sicuri fra quelli di emigrazione possono essere individuati, tanto più se si guarda al trattamento di certe categorie, come le donne e gli omosessuali, riconducibile alla stessa religione dominante.

Se poi, al di là della provenienza da stato sicuro, che comunque permette una gestione seriale come si richiede ad un fenomeno di massa come l’immigrazione, si deve andare oltre, all’esame caso per caso, circa qualche motivo che renderebbe pericoloso il rimpatrio, allora tutto diviene imprevedibile, tanto più che ogni informazione viene quasi sempre dal solo immigrato. Si pensi al caso verificatosi di uno escluso giudizialmente dal rimpatrio perché a casa lo stavano aspettando coloro che gli avevano anticipato la somma necessaria per emigrare.

Se si vuole condizionare i rimpatri all’esistenza di stati sicuri – sempre che non ce la si cavi come fa una certa sinistra col sostenere che dati alla mano i rimpatri sono difficilmente eseguibili – sarebbe cosa opportuna che fosse la stessa Ue a fornirne l’elenco, cosa, peraltro, tentata, ma non realizzata neppure nel recente Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo in vigore dal 2026. Così si sostituirebbero gli elenchi predisposti dai vari membri, niente affatto coincidenti, in quanto predisposti in ragione delle loro specifiche relazioni con i paesi di partenza, cui evidentemente non intendono rinunciare.

Esondazione dei giudici

Che la vicenda si sia trasformata nella classica polemica fra politica e magistratura non desta alcuna sorpresa dato che, al di là della rilevanza peculiare acquisita in Italia, come eredità della stagione berlusconiana, la convivenza fra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario è divenuta sempre più problematica nelle moderne democrazie.

Si assiste ad una esondazione del potere giudiziario, che solo per una forma di ipocrisia si potrebbe ritenere vincolato ad una lettura neutrale della legge, data l’ampia discrezionalità ermeneutica resa ancora più accentuata da una redazione legislativa approssimata. Che, come una discrezionalità curvata alla propria visione personale sia vissuta da una certa giurisprudenza lo dimostra l’ormai scontata abitudine da parte dei magistrati di anticipare pubblicamente la loro opinione su una determinata materia, per poi decidere conformemente, senza ormai suscitare alcuno scandalo, anzi la reazione stizzosa della doppia rete di protezione sindacale, la maggioranza togata del Consiglio Superiore della Magistratura e della Associazione nazionale magistrati.

Certo non c’è alcuna possibilità di ritornare alla regola aurea per cui i magistrati dovrebbero parlare solo attraverso i provvedimenti di loro competenza; non c’è perché è ormai opinione comune che essi abbiano la stessa possibilità di avvalersi della libertà di opinione consacrata dalla Costituzione. Ma allora varrebbe la pena di vietare ai magistrati dediti a far sapere a destra e manca che cosa pensino su questo e su quello di pronunciarsi su questioni di cui sia possibile prevedere il loro giudizio da interventi e comportamenti pubblici.