Perché alla sinistra serve che il 25 aprile resti divisivo

Qui sta il problema del Pd: l’anticomunismo ancora diffuso nell’elettorato non coincide affatto con un fascismo di ritorno. E quanti si dichiarerebbero anticomunisti?

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salis scurati 25 aprile

Nella trasmissione Prima di Domani, a fronte della speranza manifestata di una Festa della Liberazione condivisa espressa in maniera un po’ scontata da un partecipante, Gad Lerner riaffermava seccamente che era bene che fosse e restasse divisiva. Si può tranquillamente riconoscere che la sua voce fosse quella dell’intera sinistra, che lucra su tale festa per affermare la sua presenza quale unica autentica erede della guerra partigiana, elevata a protagonista principale della liberazione, tanto che nella sua ricorrenza viene di fatto del tutto marginalizzata la presenza degli alleati.

È una falsificazione storica, perché è vero che la data prescelta, il 25 aprile, lo è stata per essere quella della cacciata da Milano delle truppe tedesche ad opera di forze partigiane, ma effettuata di fronte ad una loro ritirata a seguito dello sfondamento della linea gotica, a guerra persa, poco prima dell’entrata in città degli anglo-americani. Ma questa precisazione sarebbe bene tenerla presente, per non esagerare l’importanza militare della Resistenza, senza per questo diminuirne la rilevanza etica e politica, di cui c’è certo traccia profonda nella nostra carta costituzionale.

La Costituzione “antifascista”

Definirla antifascista può essere corretto se si guarda alla congiuntura storica in cui vide la luce, nel segno di un ritorno alla libertà dopo il Ventennio, ma nella veste assunta è una carta che configura una democrazia liberale e sociale, di per sé contraria ad ogni sistema autoritario e totalitario, fascista o comunista, il fascismo di Mussolini e il comunismo di Stalin, con in vista una sorta di pacificazione nazionale, in sintonia con l’amnistia per i reati commessi dall’una e dall’altra parte nella guerra civile.

Ne rappresenta una chiara conferma la disposizione transitoria n. 12, che, al primo comma, guardando al futuro, vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”; ma, poi, al secondo comma, volgendo lo sguardo al futuro, ammette sì di poter introdurre per legge “limitazioni … al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”, ma solo se “temporanei” e, comunque “non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione”.

D’altronde, è in tale spirito che la Festa venne proposta da Alcide de Gasperi, allora presidente di un governo di “unità nazionale”, nel 1946 e tradotta in un decreto di Umberto II, “A celebrazione della totale liberazione dell’intero territorio italiano”, quindi senza ricollegarla affatto alla azione della sola resistenza; e venne istituzionalizzata nel 1949, insieme alla Festa della Repubblica, il 2 di giugno, ricorrenza del referendum, sempre con De Gasperi, questa volta presidente di un governo centrista.

Il monopolio del 25 aprile

Non occorre qui ritornare sul come e perché il PCI riuscì a realizzare un monopolio della Festa del 25 aprile, con a sua madrina l’Associazione nazionale partigiani, utilizzandola come l’occasione di una grande mobilitazione antifascista: da un canto, legittimando e in pieno come “democrazia progressista” quella dell’Unione Sovietica e dei Paesi satelliti, solo per il fatto che l’Urss era stata una protagonista determinante nella guerra contro il nazi-fascismo; dall’altro, coltivando l’accusa di fascismo nei confronti dei governi che lo escludevano, mettendo alla gogna la loro azione politica come anti-resistenziale e anticostituzionale.

La prima ragione è venuta meno, ma non per scelta consapevole del PCI, tanto che lo stesso Enrico Berlinguer non si spinse oltre al riconoscere che la spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre era venuta meno; ma per la fine traumatica della stessa Urss, a partire dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989.

La seconda è rimasta, come una caratteristica essenziale dello stesso genoma del partito, a prescindere dalla sigla via via adottata, che nel rivendicare l’eredità esclusiva della Resistenza, come fondamento di una Carta costituzionale antifascista, si considera l’unica forza politica autorizzata a definire la legittimità costituzionale di qualsiasi altra. Col che viene a violare la regola prima della democrazia, che è quella per cui, a sensi dell’art. 1, co. 2, “La sovranità appartiene al popolo”, che le esercita in primis nelle elezioni politiche.

Del tutto conseguente è la svalutazione dei risultati elettorali, dai quali emerge la coesistenza di una maggioranza e di una opposizione, perché le elezioni politiche relativamente libere sarebbero compatibili con una democratura tipo Orban o, almeno, secondo il nuovo guru della sinistra, Antonio Scurati, con una maggioranza fascistoide.

Una festa divisiva

Per questo la voce di Lerner è la voce dell’intera sinistra, che il 25 aprile resti una festa divisiva, tanto da rendere ipocrita la richiesta di una partecipazione di Giorgia Meloni, cui basterebbe recitare la formula sacramentale di “essere antifascista”. La cosa che non si vuole capire è che dirsi “antifascista”, con riguardo non al fenomeno storico ma al comportamento del governo in carica, come di fatto è successo in maniera eclatante durante questo 25 aprile, significherebbe non solo smentire sé stessi, ma addirittura il consenso elettorale ottenuto.

L’errore del PCI, condiviso se non addirittura esaltato col tempo, è quello di non tenere conto che il fattore K, della conventio ad excludendum, è stato superato a livello istituzionale ma non a livello del corpo elettorale. Secondo Silvio Berlusconi il comunismo era morto, ma i comunisti erano sopravvissuti. Una battuta, ma a prescindere da quanti si considerino oggi tali, quelli che sono sopravvissuti stratificati nella memoria collettiva sono i ricordi del pericolo rappresentato per decenni dal PCI, allineato in tutto e per tutto all’Unione sovietica, così come tradotti nelle elezioni del 18 aprile 1948, dove si giocava la partita fra essere una democrazia pluralista o una democrazia progressista.

Saranno pochi i comunisti sopravvissuti, ma sono a tutt’oggi molti che solo con estrema fatica si dichiarerebbero anticomunisti, per non voler fare i conti con il passato. Il che alimenta l’anticomunismo ancora ben diffuso, che non coincide affatto con un fascismo di ritorno. Criticare per generico e ambiguo l’opposizione ad ogni totalitarismo, perché riferito sia al fascismo e al comunismo, mentre in Italia c’è stata una dittatura fascista ma non una dittatura comunista, significa, qui sì, non voler fare i conti col proprio passato, di un PCI post-bellico ancora sostanzialmente antidemocratico, fino al punto di ravvisare nella rivolta ungherese una controrivoluzione fascista.

Finita la Festa, gabbato lo Santo, dove qui lo Santo è il credere che ci sia una larga maggioranza anti-governativa, quale testimoniata dalla mobilitazione di alcune decine di migliaia. No, purtroppo non contano le piazze, ma le urne. Qui sta il problema di un Pd che, inchiodato al 20 per cento, vorrebbe essere il partito egemone di un “campo aperto”, da un voto all’altro, sempre più ristretto.

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