La vicenda del gioielliere condannato a quasi due decenni di carcere e a risarcire i danni per una somma esorbitante per avere ferito a morte un rapinatore, ha suscitato in molti (compreso chi scrive) un profondo senso di sconcerto, quello che si prova davanti ad una evidente ingiustizia. In effetti, a conti fatti, il gioielliere ha subito le stesse conseguenze penali e civili che subirebbe un killer prezzolato che spara in maniera premeditata ad una persona che cammina per strada.
Giustizia ingiusta
Il diritto però, dirà qualcuno, è una disciplina tecnica, che segue una logica diversa da quella del senso comune, e qualcun altro ricorderà che già nell’antica Roma (patria dei giuristi), Cicerone (106 – 43 a.C.) affermava che spesso la più raffinata applicazione della legge coincide con la più grande ingiustizia (summum ius, summa iniuria). Tuttavia è anche vero che quando le decisioni giuridiche contrastano in maniera evidente con il principio di equità, ciò rappresenta un segnale di allarme che suggerisce che qualcosa non va e che le norme e/o la loro applicazione vanno cambiate.
Tralasciando il caso specifico (riguardo al quale c’è solo da augurarsi che la sentenza di primo grado venga riformata in appello in maniera più equa), le modalità della gestione dal parte del potere giudiziario (o della maggioranza dei suoi esponenti) dei casi di autodifesa non possono, con tutto il rispetto, essere condivise. Troppo spesso persone che, in qualità di vittime della violenza altrui a questa violenza si sono opposte, vengono condannate come se fossero i responsabili di una situazione che non hanno creato e che avrebbero dato qualunque cosa per evitare; e troppo spesso anche quando nella reazione possono ravvisarsi un eccesso o un errore punibili penalmente, le condanne eccedono di gran lunga la corretta misura.
La tutela prioritaria dell’aggredito
Peraltro, nei manuali di diritto penale di qualche decennio fa, e soprattutto nella prassi giudiziaria di allora l’interpretazione e l’applicazione delle norme sulla legittima difesa (articoli 52, 55 e 59 del codice penale) portavano ad esiti molto più equilibrati e molto più favorevoli alla vittima iniziale dell’aggressione.
La disciplina tecnico-giuridica dell’autodifesa era in sostanza basata su una concezione culturale che stava monte, e che consisteva in una sorta di “tutela prioritaria” dell’aggredito: questa visione “di favore” era pienamente giustificata dal fatto che il suo comportamento era considerato un atto legittimo, da condannare solo nei suoi eventuali eccessi o errori, mentre quello dell’aggressore, in quanto atto illecito e per giunta violento non meritava tutela, se non nei casi in cui la reazione assumeva il carattere di una vendetta o di una punizione, inutile per la difesa dei diritti dell’aggredito.
Non si trattava di una impostazione a senso unico, non si riconosceva all’aggredito una sorta di “licenza di sparare” illimitata: ben specificata sia nei testi degli studiosi che nelle sentenze era infatti la necessità di salvaguardare anche l’incolumità dell’aggressore, solamente che questa esigenza veniva in parte subordinata al fatto che chi delinque (e delinque in maniera violenta) si deve assumere le responsabilità delle conseguenze dei suoi atti.
Cultura dell’equidistanza
Da qualche tempo però l’impostazione culturale della giurisprudenza nel nostro Paese è cambiata, in peggio a giudizio di chi scrive. Molto probabilmente sotto l’influsso, a volte sotterraneo ma non per questo meno efficace, della cultura buonista o politicamente corretta che per principio trova enormi difficoltà a riconoscere che esistano un torto ed una ragione ben definiti (tutti concetti da decostruire perché ritenuti contrari alla creazione di equi rapporti sociali), l’interpretazione e l’applicazione delle norme sulla legittima difesa sono state profondamente modificate.
Per molti versi la posizione dell’aggredito che reagisce e quella dell’aggressore sono state quasi messe sullo stesso piano, abbandonando la posizione orientata principalmente alla tutela del primo, e portando alle conseguenze criticabili cui ho accennato. Ma proviamo a vedere quali sono stati i principali mutamenti in questa parte applicativa del diritto penale, e perché essi sono da valutare negativamente.
Innanzitutto, la valutazione del fatto in sé (che rientra in quello che si chiama “elemento oggettivo” del reato, sia pure, in questo caso, nel senso che ne esclude l’illiceità): tradizionalmente quanto avveniva in un determinato contesto (rapina in casa, specialmente in ore notturne; rapina in negozio ecc.) veniva considerato in maniera unitaria, per cui la reazione “necessaria” e “proporzionale all’offesa” richiesta dal codice per aversi legittima difesa era valutata considerando globalmente la situazione, senza distinguere ad esempio se il rapinatore avesse o meno già riposto le armi e stesse fuggendo, con l’ovvio limite dell’unità dell’azione, nel senso che la reazione doveva svolgersi sempre all’interno dei locali dell’aggredito o nelle immediate vicinanze e doveva essere immediata e non avvenire quando già l’aggressore si era impossessato definitivamente del bene, mettendolo al sicuro.
Inoltre, la proporzione tra il diritto minacciato e quello leso con la reazione venivano intese in senso elastico, nel senso che ad esempio l’uso delle armi era consentito entro certi limiti anche per la sola tutela dei beni materiali, come nel caso di semplice furto e non solo in quello di rapina a mano armata.
Oggi invece il fatto da esaminare viene spesso spezzettato nel giudizio: ad esempio si distingue tra il momento in cui il rapinatore minaccia (nel qual caso la reazione è legittima) e il momento in cui fugge con il bottino (nel qual caso non lo è più), e la proporzionalità inoltre è intesa in senso rigoroso: quasi solo nel momento della minaccia armata alla persona si può reagire con la forza.
In questo modo viene meno quella “tutela prioritaria” che l’applicazione tradizionale delle norme riservava all’aggredito, e sembra sovente che lo Stato, il potere giudiziario e a monte quello di accusa, prendano culturalmente una posizione quasi di “neutralità” tra chi aggredisce e chi si difende, una posizione che (anche se è sacrosanto limitare gli eccessi dell’autodifesa) non si può condividere.
Nei panni dell’aggredito
Un altro aspetto profondamente modificatosi negli ultimi decenni di applicazione delle norme in tema di legittima difesa riguarda la valutazione della colpevolezza personale di chi si difende, quello che viene chiamato “elemento soggettivo del reato”. Davanti a casi come quello del gioielliere, purtroppo frequenti, nei quali il soggetto che reagisce viene condannato per omicidio intenzionale (doloso), lo sconcerto è forte e viene da chiedersi: se l’omicidio è intenzionale quale sarebbe (uso un’espressione non tecnica) il movente? Perché l’aggredito ha sparato ad un soggetto che nemmeno conosceva? Lo ha forse fatto per il puro gusto di sparare anche a costo di uccidere, con quell’atteggiamento mentale che è chiamato “dolo eventuale”? La risposta è invece banale: chi spara in questi casi, lo fa per difendersi, per cui l’intenzione di uccidere per altri motivi, se non impossibile è certo molto difficile che si verifichi in un caso di autodifesa.
Naturalmente è invece possibile (e purtroppo accade) che chi si difende ecceda i limiti consentiti dalla legge, e a parte i casi di eccesso voluto cioè doloso (si ferisce il ladro di polli, o il rapinatore che fugge senza bottino), nelle ipotesi di rapina l’eccesso è quasi sempre involontario, determinato cioè non da dolo, ma da colpa (e le pene per l’omicidio e le lesioni colposi sono molto più lievi rispetto a quelle dell’omicidio e delle lesioni volontari e molto minore è l’entità dei risarcimenti civili), nel senso che l’aggredito sopravvaluta il pericolo oppure addirittura crede erroneamente di trovarsi di fronte ad un’aggressione.
Peraltro, anche nel valutare queste ipotesi (molto meno gravi come detto) di difesa illegittima in quanto colposa, la prassi giudiziaria ha subito una forte modifica negli ultimi decenni: mentre un tempo il giudice per così dire “si metteva nei panni” di chi aveva reagito, giudicando il suo comportamento in base alle circostanze di tempo e di luogo e alla situazione emotiva creata dall’aggressione, oggi il giudizio tende ad essere “fattuale” e astratto da tutte queste circostanze, con evidente penalizzazione dell’aggredito.
Si pensi al caso del rapinatore armato di pistola giocattolo ma non distinguibile nella situazione concreta da una vera: in base all’orientamento tradizionale chi reagiva veniva giustificato, in quanto non in grado di valutare che l’arma era finta; in base all’indirizzo recente, lo stesso viene non di rado condannato per omicidio colposo o lesioni colpose in quanto non era presente una minaccia “oggettiva”.
Se certamene il diritto penale non deve arrivare sino a comprendere e a scusare tutte le situazioni personali (cosa che peraltro invece avviene in alcuni casi, ad esempio verso soggetti di cultura non occidentale ritenuti non imputabili perché non capaci di comprendere il carattere delittuoso del fatto compiuto), è vero che il giudizio sull’autodifesa dovrebbe consistere come era prassi in passato in un valutare i fatti, in maniera rigorosa ma concreta, ponendosi nella situazione di chi ha reagito.
Autodifesa diritto “naturale”
In fin dei conti, questo rappresenterebbe in gran parte un ritorno alla concezione tradizionale, magari da attenuare in alcuni suoi eccessi troppo favorevoli alla autodifesa, ma sostanzialmente da riprendere, sia pure in forma modificata. Ciò anche perché, quando reagisce alla violenza è il cittadino che si “mette nei panni” dello Stato e in effetti si sostituisce ad esso.
Su quali sarebbero i diritti e i doveri dei singoli uomini in una società senza Stato, in una società anarchica, si è molto disquisito nel corso dei secoli: chi scrive ritiene corretta la concezione liberale propria ad esempio di John Locke (1632 – 1704) che riconosce ai singoli anche in una ipotetica società “di natura” (anarchica) il possesso dei diritti fondamentali, compreso il diritto di autodifendersi.
Se giustamente nella società civile basata sullo Stato (la cui necessità nessuna teoria “antisovranista” è mai riuscita a negare) solo il potere pubblico può usare la forza verso chi delinque, è anche vero che quando la forza pubblica non può intervenire (e questo è sempre più spesso drammaticamente vero, per l’aumento della criminalità e la diminuzione dell’efficacia dell’azione delle forze dell’ordine, causata da tanti motivi che sarebbe lungo esaminare), entra in gioco il diritto “naturale” all’autodifesa dei singoli.
Del resto la stessa legge italiana, il codice di procedura penale (art. 383) riconosce addirittura al privato cittadino, in assenza delle forze dell’ordine, il potere di arrestare il colpevole di una serie di gravi reati, tra cui la rapina.
Abbiamo detto che troppo spesso la condanna di chi reagisce urta per molti (compreso il sottoscritto) contro il senso di equità; forse a mio avviso il motivo ultimo sta proprio questo: chi reagisce alla violenza illecita non si pone contro la legalità e contro lo Stato (come fa chi compie il crimine, in particolare chi agisce in maniera intenzionale), ma di fatto, non essendo in quel momento tutelato dallo Stato, si sostituisce ad esso, e il giudizio di assoluzione o di condanna sul suo operato deve tenere conto di ciò.
Il non farlo – sia detto con tutto il rispetto per chi la pensa ed agisce diversamente – rappresenta una grave violazione del diritto fondamentale, “naturale” di ogni essere umano a difendere sé stesso, i propri cari e i propri beni, una situazione alla quale sia il potere politico che quello giudiziario “per quanto di competenza” come si usa dire, avrebbero, a parere di chi scrive, il dovere di porre rimedio.