“Fermate il mondo, voglio scendere!”. Con questa frase, inizialmente contenuta in un Carosello del 1976 con Ernesto Calindri, si proponeva in termini umoristici un concetto che, ancora ai giorni nostri, è sempre attuale. Chiunque fra noi, ormai quotidianamente, s’imbatte in situazioni paradossali che ci spingono a considerare il mondo in cui viviamo come una gabbia di matti.
Fatta questa premessa, ossia dopo aver sottolineato come si stia vivendo in un caravanserraglio di persone ormai shakerate e confuse tra mille assurdità, resta una domanda, alla quale non è semplice rispondere: a chi giova tanta confusione?
Spinti a dividerci
Il “divide et impera”, comunemente attribuito tanto a Filippo II il Macedone, che a Cesare e a Luigi XI di Francia (ma non è importante chi lo disse per prima) potrebbe essere una prima risposta alla fatidica domanda cui sopra: per alcuni potenti della Terra, avere a che fare con popolazioni profondamente divise al loro interno è certamente un vantaggio. L’unione fa la forza e spesso non è soltanto un luogo comune. La guerra in Ucraina lo dimostra.
Ma torniamo a noi: una strofa, pressoché sconosciuta del Canto degli Italiani di Mameli dice: “Noi fummo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popol, perché siam divisi”; frase da inserirsi nel complesso contesto socio-politico dell’Italia alle soglie dell’unificazione, ove la compattezza di un solo popolo appartenente alla stessa nazione fu auspicata come spina dorsale del nascente nuovo Stato.
Benché un più prudente Cavour ammettesse che: “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”, e già qui si potrebbe scorgere qualche difficoltà che il grande statista piemontese intravedeva per fare di noi un solo popolo, è la stessa politica nostrana ad aver sempre più accoratamente spinto gli italiani a dividersi in precise fazioni contrapposte.
Perlomeno a chiacchiere, i principali partiti politici italiani, ammesso che a questi venga riconosciuto un ruolo trainante nella politica, ci viene continuamente riproposto il peana all’unione nazionale come valore fondante della Repubblica ma, di fatto, sono proprio i massimi esponenti di quei partiti a tracciare sempre nuove divisioni, nuovi steccati, a dividerci come bestiame di varia specie. Tralasciamo pure, perché non amo soffermarmi troppo sulle sciocchezze, la melensa belinata (come si dice a Genova) del “costruire ponti ed abbattere muri” che tanto piace a chi non sa cosa suggerire di preciso e fattibile e si limita ad attestarsi sulle frasi generiche di uso universale, e manteniamoci ai fatti.
Fascisti e antifascisti
Pare che, oggi più che mai, sia indispensabile schierarsi in una fazione, una categoria, peraltro assai incerta nei connotati identificativi, che debba contrapporsi ad un’altra per meritare una sorta di certificazione di civiltà e di “buona condotta”. La più evidente suddivisione richiestaci per essere ammessi tra le persone rispettabili e perbene è quella, più che mai dibattuta in questi mesi, tra fascisti ed antifascisti.
Partendo dal concetto di fascismo, che si potrebbe dedurre dal dettato costituzionale, o meglio, alle sue disposizioni transitorie e finali, che prevedono il divieto della ricostituzione del partito fascista, ne deriverebbe, almeno giuridicamente e per logica, che chiunque non compia un atto finalizzato all’eventuale rifondazione del disciolto partito fascista possa dirsi un antifascista, e su questo non dovrebbe cadere neppure una pioggerella primaverile. Ma il problema è ben altro.
Sappiamo, però, che per un curioso fenomeno di relazione inversa, più ci si allontana dal ventennio fascista, ed abbiamo ormai superato il secolo dalla sua nascita, sembra che la maggior parte delle forze politiche di sinistra mettano al primo posto del loro programma la lotta al fascismo.
Sul punto, consiglio vivamente di leggere il recentissimo libro di Daniele Capezzone: “E basta con sto fascismo – Cari compagni ci avete rotto”, che contiene una lucida analisi del fenomeno sociale in atto.
Ma, tralasciando i riferimenti storici, i quali, già consentirebbero d’identificare come sicuro (ex) fascista qualche ultranovantenne che fascista lo fu davvero, scartando tutti i sopravvissuti vecchietti che cambiarono idea (non è reato dissociarsi moralmente da qualcosa che si ritenne buono all’inizio, salvo ricredersi) e tutti quelli nati decenni dopo la caduta del fascismo, resta il fatto che tutti questi pericolosi fascisti di oggi non si trovano facilmente tra la gente comune e nemmeno in Parlamento. Parlano i numeri e le carte d’identità.
Ma attenzione a questo passaggio: più che basarsi sull’effettiva e convinta partecipazione al movimento fascista (che, lo ricordo ai più distratti, nacque nel 1919 e morì col suo fondatore nel 1945) oggi si fa in fretta a dare del fascista a chiunque. In pratica, è il concetto di “antifascista” ad essere trainante. Per appartenere alla lodata categoria degli antifascisti, basta dichiararsi tali: nessun problema di età anagrafica, di precedenti militanze politiche o di posizione sociale e se sei di sinistra lo sei di default. Di conseguenza, fascisti lo sono tutti gli altri, per esclusione.
Rischio per la sicurezza
Il lato pericoloso della faccenda è, però, che pare proprio non esista una terza via: o si è antifascisti oppure fascisti e in ciò risiede il crescente rischio per la sicurezza nazionale di un sempre più intollerante metodo di lotta politica, al cui interno si annidano, spesso ben accolte dai “veri democratici”, frange di esaltati che promettono morte ai “fascisti” e costringono ad assegnare scorte di polizia a sempre più disparate persone.
Parliamo di formazioni che, secondo il Ministero degli interni, sarebbero esponenzialmente superiori nei numeri alle poche, patetiche, teste rasate agitanti simboli hitleriani non più frequentemente di tre-quattro volte l’anno.
Tralasciamo, per brevità, ma non guasta ricordarle, le dichiarazioni di autorevoli ex esponenti del PCI che definivano le Brigate Rosse come “compagni che sbagliano” e nulla più di ciò. Anche il comunismo, che tuttora resiste in grandissimi e tra i più influenti Stati mondiali, ha milioni di morti sulla coscienza e ogni giorno vengono brutalmente repressi, quando non soppressi, gli oppositori. Mica parliamo del circolo del ricamo, ma del comunismo, che non si basa sulla assoluta tolleranza, ma bensì sulla lotta ai capitalisti ed ai “padroni” con ogni mezzo.
Insomma, la situazione, ma spero di sbagliarmi, sembrerebbe quella di un momento assai critico per la nostra democrazia, dove, per eccesso di “buoni sentimenti”, quando non siano semplici aspettative di consenso personale, si corre il rischio di creare nemici dello Stato inesistenti e contrapposizioni di massa che, come già ammoniva Mameli nel 1847, ci condannano ad essere “calpesti e derisi” nel mondo.
Chi decide?
Ultimo, ma non certamente per importanza, elemento di preoccupazione, seria e documentabile: chi decide chi possa definirsi antifascista? Dal momento che tale si definisce, dal 1945 ad oggi, e per statuto, ogni partito e movimento di sinistra, bisogna quindi essere di sinistra se non si voglia essere fascisti?
E quanto conta, in tale mistificazione culturale, che la maggior parte degli elettori abbia votato a larga maggioranza un Parlamento composto da loro rappresentanti di centrodestra? Proprio nulla, cari eterni innamorati della Costituzione-più-bella-del-mondo che la leggete come vi fa comodo?