I media italiani sono adesso scossi dal gran rifiuto della Rai a consentire che Antonio Scurati leggesse sulla “terza rete” un piccolo monologo sul 25 aprile (1 min. circa) che si concludeva alludendo a una conseguenzialità tra i crimini del Ventennio e l’attuale governo in carica. Mentre salivano verso il cielo le urla di chi gridava alla censura, ecco la presidente Giorgia Meloni – sulla sua pagina Facebook – postare l’intervento del romanziere.
Scurati, che sul fascismo ha costruito le sue fortune editoriali, non è nuovo a queste denunce morali di facile beva. Il 15 gennaio scorso, alla trasmissione condotta da Corrado Augias “La torre di Babele”, alla domanda sul perché in Italia non si sia mai imposta una epica del Risorgimento rispondeva che il vizio d’origine dell’Italia era che mancava una “epica del Bene” relativa al proprio fondamento ed invece vi è un racconto fondativo “del Male”, cioè “l’evento centrale della nostra storia continua a rimanere il fascismo, purtroppo.
Quindi la nostra storia contemporanea trova la propria origine, dal punto di vista simbolico e dell’immaginario collettivo in un fondamento negativo. Questo, penso, azzoppi la nostra collettività ed il nostro senso identitario, la nostra autocoscienza come nazione. Cosa diversa se noi fossimo riusciti a trovare nel Risorgimento quell’origine positiva del Bene”.
Una storia alternativa
L’argomentazione potrebbe essere definitiva, solo se essa fosse ascoltata da un “marziano” digiuno delle vicende storico politiche del Belpaese. Purtroppo, questa limpida sintesi di Scurati si intorbida se non si vanno a cancellare in una voluta censura elementi estranei alla vulgata proposta. Questa “censura” apparve tale già decenni fa. Rosario Romeo, ineguagliato storico del Risorgimento ebbe modo di dire, in Scritti politici 1953-1987 :
Un Paese idealmente separato dal proprio passato, è un Paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori da cui trarre ispirazione e senza quel sentimento di fiducia in sé stesso che nasce dalla coscienza di uno svolgimento coerente in cui il passato si pone come premessa e garanzia per il futuro.
Romeo, inoltre non nascondeva la sua convinzione che ad accrescere la crisi di identità non fosse estranea una sorta di “operazione politico-culturale” portata avanti da una parte dei cattolici e dai comunisti per contrapporre “alla storia realmente accaduta una storia alternativa, non realizzata in passato ma realizzabile in avvenire”. Ecco l’Ur-fascismo di Umberto Eco, ogni volta risuscitato alla bisogna.
È persino banale dire che il fascismo sia stato sconfitto dalla storia ed è nelle cose che se è vero che chi vince non è detto abbia sempre ragione, certamente chi perde ha sempre torto. Meno banale è, invece, dire che se il fascismo costituisca – ancora adesso – l’elemento fondativo della nostra contemporaneità questo è il frutto di una accurata strategia comunicativa e divulgativa della Storia tesa a legittimare il “dopo”, cioè quello che si opponeva al fascismo.
Si poteva cancellare il fascismo come costante attualizzazione del male, in questi ultimi ottant’anni? Sì! La risposta ce la offre l’attore afroamericano Morgan Freedman che, in una intervista del 2005 concessa nella trasmissione 60 Minutes alla domanda: “come ci si può liberare dal razzismo?”, semplicemente disse: “smettendo di parlarne”. Cosa vi è di più semplice? Se una composizione politica o comportamentale, che sicuramente non si estingue di per sé, smette di essere continuo oggetto di dibattito e cessa di essere “termine fisso” di ogni discussione, lentamente si spegne, come un fuoco non alimentato.
Invece in Italia le cose andarono diversamente. In una riflessione accademica lo storico “democratico” tedesco Lutz Klinkhammer nel 1994 – per la rivista dell’Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia – riteneva che quella della RSI “sia stata demonizzazione necessaria […] perché altrimenti l’antifascismo non si sarebbe imposto culturalmente”. Demonizzazione cioè costruzione astratta ex post, legittimante tutto ciò che accade “dopo” i fatti. Ciò ha generato non solo l’impossibilità di una memoria condivisa (oggettivamente impossibile), ma anche la mancanza di valori condivisi.
I limiti concettuali dell’antifascismo
Se Scurati lamenta la centralità fondativa del “fascismo” è perché in questi ultimi ottant’anni si è vissuto di “antifascismo”. Il punto nevralgico della discussione sta nei limiti concettuali del termine antifascismo. Esso è, su di un piano analitico, termine “negativo” (anti) e “limitato”, perché correlato ad un altro (fascismo). Antifascismo, quindi, si oppone a fascismo, ma nell’esperienza storica, fu una opzione “tattica” e non “strategica” e sentitamente unitaria.
Ad esempio, si prendano due figure prestigiose del movimento partigiano, due medaglie d’oro al valor militare: Edgardo Sogno e Arrigo Boldrini (Bülow). Entrambi schierati nella comune lotta al nazi-fascismo, ma portatori di valori assolutamente antitetici. In altri contesti storici non avrebbero esitato a combattersi con la medesima tenacia dimostrata nel periodo 43-45.
L’antifascismo non ha un univoco contenuto valoriale. Quanto viene detto nelle celebrazioni ufficiali è, spesso, stucco di facciata. Molti dei valori della “democrazia dei moderni”, innervata di paradigmi liberali, in Italia, venne – con buona pace di una certa narrazione – imposta ad una certa parte politica, visto che su ben più importanti tavoli si decise che l’Italia era nello schieramento “occidentale”. Per questo, in Italia, sopravvive la religione della “memoria” con le sue liturgie ed il suo clero militante che scavalla le forche caudine di un impossibile confronto valoriale.
Fascista come sinonimo di nemico
Ecco che da queste distorte memorie (distorte perché necessariamente funzionali) si sviluppa la teoria del moderno antifascismo e del nuovo ed eterno fascismo. È utile ricordare come il termine “fascismo”, sia stato e sia un termine di grande successo nel marketing politico (e quindi l’antifascismo).
Come primo – in ordine temporale – regime autoritario di destra compiutamente realizzato, il “fascismo” è divenuto l’archetipo stesso dei regimi e delle ideologie di destra, anche se – ad una analisi della struttura di queste ideologie e di questi regimi – ciò risulta falso. Così il fascismo, agli occhi del suo antagonista politico (l’antifascismo), si spoglia, già nel passato, di una sua veste ideologica, per assumere quella dell’”avversario”, chiunque esso sia. Non a caso, nella propaganda del “Blocco orientale” il Muro di Berlino aveva assunto il ruolo di “Vallo antifascista”.
Il fatto che la fortuna di movimenti di estrema destra sia iniziata nei Länder orientali non è casuale. Ma una reazione alla precedente religione laica di Stato. Nulla è cambiato nei decenni, anzi l’utilizzo dei termini è sempre più astratto: “fascismo vs antifascismo” come “Male vs Bene”. Proprio perché militante di un termine “minimo” e “limitato” il moderno “antifascista di professione”, nei decenni ha modificato il significato stesso di “fascismo”, sempre meno legato all’originale, se non per piccole liturgie perpetuate nel tempo.
Il “fascistometro” – divertissement tanto stolido, quanto inutile – proposto da Michela Murgia, si configura come un sillogismo che mette al centro l’autore stesso: “Io sono antifascista; tu non la pensi come me; tu sei fascista”. Questo giochino potrebbe essere derubricato a folklore (quale dovrebbe essere considerato) se non entrasse in modo subliminale nell’agone politico.
Pd “partito antifascista”
Il Pd, da sempre partito di “potere” – anzi nato per questo – ma alla continua ricerca di un suo “centro di gravità permanente”, il 17 novembre 2019 approvò un nuovo statuto, il cui articolo stabilisce che “il Partito Democratico è un partito antifascista che ispira la sua azione al pieno sviluppo dell’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana”.
Assunta la banalità del riferimento alla costituzione (essa come “legge fondamentale” è cogente per tutte le istituzioni pubbliche e private presenti sul territorio nazionale, anche se – nei vari statuti – non fanno specifico riferimento al dettato) è raccapricciante, fino al comico, l’espressione partito “antifascista”. Sarebbe troppo chiedere ad un partito: “Cosa sei? cosa vuoi?” senza accontentarsi di un montaliano: “Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Eppure, chi non è più giovane ricorda un tempo in cui il confronto ideologico e programmatico tra partiti era ben maggiore dell’attuale e dove lo scontro in piazza aveva ben altri sapori da quelli attuali da “gita fuori porta” in cui l’identità era tutto: i vecchi PCI, DC PSI (ecc…) – partiti che affrontarono sul serio la minaccia fascista – si proclamavano orgogliosamente comunista, democristiano e socialista, perché quegli aggettivi rappresentavano qualcosa di sentito e di programmatico e non vi era bisogno di sventolare bandiere “negative”.
Vi era un tempo in cui non si mettevano in piazza le vecchie uniformi utilizzate dall’avversario (quelle sì vere e non di scena) ed ai “piani alti” della politica si portava rispetto per l’avversario. Chi ha passato i 50 anni dovrebbe ricordare che il segretario del MSI Giorgio Almirante (lui sì vero fascista) fu presente alle esequie del segretario del PCI Enrico Berlinguer (lui sì vero antifascista).
L’antifascismo militante
Anni dopo, quando il primo passò a miglior vita, Pajetta (antifascista ancora più “arrabbiato”) ricambiò il favore. Comunque, la “vulgata” antifascista – nonostante l’auspicio di Luciano Violante del 1996 – ha sempre impedito, le parole di Scurati lo dimostrano, che si potesse creare una memoria condivisa.
Senza questa resta solo l’antifascismo “militante”, lontano dall’antifascismo “autentico”, lubrificante utile a costruire carriere, fortune editoriali e politiche e fonte di legittimità per improprie battaglie (scomparsi ormai i “veri” resistenti) di inutili istituzioni para storiche o reducistiche e per anziani ex politici “trombati” che le presiedono.