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Prima manovra: è mancato il tempo, ma anche il coraggio

Una prudenza “buona” (deficit sotto controllo) e una “cattiva” (poco coraggio sul reddito di cittadinanza). Ma le priorità sono chiare, ora due inerzie da cui uscire

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È forse questa la sintesi più efficace per descrivere la prima manovra di bilancio del governo Meloni, che merita senz’altro la sufficienza.

Il tempo

È mancato il tempo per preparare interventi più incisivi e organici. Bisogna considerare infatti che le misure obbligate per affrontare la crisi energetica si sono mangiate quasi due terzi delle risorse, 21 miliardi su 35.

Ulteriori tagli fiscali avrebbero richiesto una attenta revisione della spesa, non essendo consigliabile nel mezzo di una congiuntura di elevata inflazione e stretta monetaria delle banche centrali, come ha spiegato Massimo Bassetti su questo sito, fare ricorso ad un maggiore indebitamento.

Un deficit sotto controllo – che ricordiamo è comunque ben lungi dal pareggio – è la prudenza “buona” di questa manovra.

Il coraggio

Ciò significa però che a nostro avvisto c’è anche una prudenza “cattiva”, una mancanza di coraggio. È mancato il coraggio sul reddito di cittadinanza. Si poteva abolire con un tratto di penna, recuperando quasi 9 miliardi (e 80 miliardi fino al 2029) da destinare a ben più corposi tagli di tasse, in particolare alle imprese. Un mini-shock fiscale che manca.

Un errore non abolire il reddito di cittadinanza

Si comprende la logica alla base della scelta del governo di procedere ad una abolizione soft del reddito di cittadinanza, passando per un anno di transizione.

Importante, nel frattempo, la stretta: limite massimo ridotto a 8 mesi dai 18 rinnovabili previsti attualmente; obbligo di partecipare ad un corso di formazione o riqualificazione professionale; decadenza del beneficio nel caso di rifiuto di una sola offerta di lavoro anziché due. Paletti di serietà e buon senso, il minimo sindacale.

Eppure, forse controcorrente, riteniamo un errore anche politico non averlo abolito completamente già dal 2023, magari concedendo tre mesi di proroga.

I percettori del reddito di cittadinanza non sono e non saranno mai elettori dei partiti di maggioranza. L’abolizione immediata avrebbe forse innescato veementi proteste e spinto le opposizioni sulle barricate – e non è affatto escluso che vi assisteremo comunque – ma almeno si sarebbe chiuso il capitolo.

Invece, il tema resterà aperto per tutto il 2023, offrendo alle opposizioni e alla stampa ulteriori 12 mesi per strumentalizzarlo accusando il governo di voler muovere “guerra ai poveri”. E alla fine dell’anno prossimo, il problema delle reazioni alla cancellazione si riproporrà tale e quale.

La scelta di una abolizione progressiva del reddito di cittadinanza ha dal punto di vista economico e finanziario l’effetto di far mancare preziose risorse che si sarebbero potute impiegare per stimolare l’economia e l’occupazione, anziché essere sprecate in assistenzialismo; dal punto di vista politico, ha l’effetto di trascinare le polemiche e il piagnisteo per un altro anno e di duplicare i momenti di possibile tensione – oggi e a fine anno prossimo.

Chiare le priorità

Va detto, comunque, che i segnali di discontinuità non mancano. Le tre flat tax rivolte al ceto medio e il taglio del cuneo fiscale di due punti percentuali fino a 35 mila euro di reddito e di tre punti fino a 20 mila, nonché la tregua fiscale, vanno nella giusta direzione.

Parlando all’assemblea di Confartigianato il presidente Meloni ha poi dichiarato l’obiettivo di legislatura di una riduzione del cuneo di 5 punti percentuali.

Vediamo un superamento della logica dei bonus, una minore tendenza a disperdere su troppe piccole voci le poche risorse disponibili. Al contrario, le priorità sono individuate molto chiaramente: meno misure assistenziali e clientelari, più attenzione a chi produce e lavora.

Due inerzie da superare

Il primo vero giudizio sulla politica economica del governo Meloni è quindi rinviato alla prossima manovra, quando avrà avuto il tempo di approfondire e studiare interventi strutturali, in particolare sul lato della spesa pubblica, che consentano il vero e proprio shock fiscale di cui il Paese ha bisogno per ripartire.

Sono due le inerzie da cui ci aspettiamo che un governo di destra voglia e sappia uscire.

Primo, uscire dalla logica degli aiuti a partire sempre dai redditi più bassi, dalle fasce più deboli. Il miglior modo di aiutare disoccupati e working poor – un fenomeno sempre più diffuso – è far crescere l’economia. E per far crescere l’economia bisogna incoraggiare gli investimenti abbassando le tasse alle imprese e deregolamentando.

Secondo, uscire dal dogma del “non ci sono i soldi”. Abbiamo un bilancio enorme, la spesa pubblica supera i 1.000 miliardi l’anno, circa il 54 per cento del Pil. È semplicemente inaccettabile sentirsi dire che non ci sono i soldi e che la scelta è tra più tasse e maggiore indebitamento.

Tagliare la spesa di un 3-4 per cento – intervento che qualsiasi impresa o famiglia è in grado di fare senza drammi sul proprio budget – libererebbe risorse per 30-40 miliardi di tagli alle tasse. Lo Stato è obeso, pretende di occuparsi di troppe cose, spesso facendolo molto male, quindi può e deve dimagrire, lasciando spazio all’iniziativa privata e più ricchezza nelle mani di chi la crea.