Primo stop al Green Deal, ma serve chiarezza per un’alternativa in Europa

Ancora lungo e incerto il percorso verso un’alleanza PPE-Conservatori. Niente giochetti, Weber decida prima delle elezioni europee con chi allearsi

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La prima fragorosa caduta di Frans Timmermans al Parlamento europeo rappresenta certamente un barlume di speranza, un piccolo passo verso la presa di coscienza delle vette di follia che possono raggiungere, e sempre più spesso raggiungono, le politiche climatiche.

La legge per il “ripristino della natura” (già il titolo indicativo della psicosi del fanatismo green) voluta dal vicepresidente della Commissione europea non ha ottenuto il via libera della Commissione Ambiente. Anche se l’ultima parola spetta alla seduta plenaria di Strasburgo, e la Commissione non intende certo darsi per vinta, si tratta di un primo significativo stop al Green Deal tanto caro alla presidente Ursula Von der Leyen.

Lontani dalla Greenexit

Ma una rondine non fa primavera, siamo molto lontani da un’inversione di tendenza, da quella che su Atlantico Quotidiano chiamiamo Greenexit. La gran parte del Green Deal è passata o in via di approvazione, e sta già producendo i suoi effetti negativi, sia nella corsa dei prezzi dell’energia e delle materie prime, che si trasferiscono alle attività produttive e all’agricoltura, sia nella dipendenza dalla Cina su rinnovabili ed elettrico.

Per sperare in una Greenexit occorre una combinazione di fattori che sappiamo essere di difficile realizzazione: ritorno di un Repubblicano alla Casa Bianca, Socialisti e Verdi fuori dalla prossima Commissione europea, volontà politica dei partiti di centrodestra europei, a cominciare dalla tedesca CDU.

Una maggioranza alternativa

Come scrivevamo qualche tempo fa, sperare che il Green Deal si incarti da solo a Bruxelles, per le divisioni tra gli Stati membri (in breve: tra Francia e Germania), senza doverci mettere la faccia, non è una politica. Una politica è costruire su una opposizione esplicita al Green Deal le basi per una maggioranza alternativa da qui alle elezioni europee del 2024.

Registriamo in queste settimane una certa accelerazione degli sforzi della Commissione Ursula per far passare la sua agenda green, che qualcuno attribuisce proprio al timore che dal voto del 2024 possa uscire una diversa maggioranza, meno sensibile alle sirene del cambiamento climatico.

Restano poco meno di dodici mesi per determinare le condizioni sia politiche che numeriche per una maggioranza di centrodestra al Parlamento europeo, sull’asse PPE-ECR, che esprima una Commissione di centrodestra, ponendo fine al vero e proprio agglomerato di potere che da decenni regna a Bruxelles e Strasburgo – con un sempre più marcato scivolamento a sinistra delle politiche europee – e determinando così per la prima volta una vera alternanza.

L’incognita PPE

Condizione necessaria, ovviamente, lo sganciamento del PPE dai Socialisti. Un passaggio ad oggi nient’affatto scontato, anche se il momento sembra favorevole come mai prima d’ora, perché (1) in Germania è finita la lunga esperienza delle Grandi Coalizioni guidate da Angela Merkel e la CDU di Friedrich Merz, oggi all’opposizione a Berlino, è molto diversa da quella della ex cancelliera ed è incalzata da destra dal partito AfD; (2) in Spagna, Grecia e anche in Francia, oltre che in Italia, la destra sembra avere il vento in poppa.

Il pareggio nella votazione di martedì in Commissione Ambiente sulla legge per il “ripristino della natura” è stato determinato dalla saldatura tra il PPE e i gruppi di destra come ECR e Id, ma anche dalla convergenza dei liberali olandesi. Sono iniziate, come alcuni hanno osservato, le prove generali per una nuova maggioranza?

Troppo poco e troppo presto per dare per sfaldata la cosiddetta “maggioranza Ursula”. Il comportamento del PPE in quest’ultima parte di legislatura europea può effettivamente essere dettato dall’esigenza di preparare il terreno per un nuovo corso politico, oppure dalla volontà dell’ambizioso capogruppo Manfred Weber di lanciare un segnale agli attuali partner di coalizione a Bruxelles, il colpo di partenza delle trattative per la nuova Commissione.

I gruppi conservatori, di cui fanno parte Fratelli d’Italia e Lega, dovranno quindi esigere chiarezza, altrimenti il rischio, anziché porre le basi per una maggioranza di centrodestra, è subire una politica dei due forni: il PPE flirta con le destre ma al solo scopo di strappare il massimo nel mercato delle vacche per i futuri equilibri Ue.

Il treno climatista

Nei prossimi mesi, quindi, il governo Meloni dovrà seminare, costruire politicamente questo percorso, sulla base di parole e atti chiari su temi qualificanti come l’immigrazione e, appunto, le politiche climatiche, senza temere l’etichetta di “negazionisti climatici”. Gli ultimi voti e le ultime prese di posizione in Europa sono incoraggianti.

Tuttavia, come si evince dagli interventi alle Camere del presidente del Consiglio, incluso quello di ieri, sebbene con approccio critico il governo appare ancora a bordo sia del treno climatista che del treno integrazionista. Due treni che non dovrebbero essere semplicemente ritardati o forniti di carrozze più confortevoli, ma fatti deragliare.

Difficile, ne siamo consapevoli. Non neghiamo che i rapporti di forza attuali possano suggerire un approccio più cauto e pragmatico. Anche se i numeri oggi non permettono di bloccare direttive come quelle sull’auto o sulla casa, è da alcuni inequivocabili “no”, da pronunciare qui e ora, che può nascere domani un nuovo corso politico in Europa. Si può vincere o perdere, ma è l’unico modo per giocare davvero la partita nel 2024.

La Thatcher e la “logica di pacchetto”

Il pericolo da cui Margaret Thatcher ci aveva messi in guardia durante la sua permanenza a Downing Street e negli anni successivi, per esempio con lo storico discorso di Bruges, si è materializzato al cubo, in misura probabilmente superiore alle peggiori aspettative della stessa Lady di ferro.

L’Ue si comporta già oggi come Super Stato, pur non essendolo a norma dei Trattati. La cosiddetta “logica di pacchetto”, a cui ha fatto riferimento anche ieri alle Camere Giorgia Meloni, è una formula buona per prendere tempo su questioni spinose come il Mes, a patto di non crederci troppo. Ma ogni strumento di maggiore integrazione, di più Europa, va respinto; ogni misura dirigista, in campo ambientale e non, combattuta.

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