Non stupisce che la sinistra assista sorpresa a quella “ventata nera” che sta investendo l’Europa, cercando solo di esorcizzarla, qualificandola, secondo un continuo crescendo, di destra-destra, estrema destra, ultradestra, destra nazifascista, senza, peraltro, volerne riconoscere la ragione profonda, quella della diffusa sensazione di una identità storica in pericolo.
Se questa si esprime in una posizione liquidata come sovranista, di insofferenza rispetto ad una crescente invadenza della Ue, potatrice di una politica omologante fino al dettaglio, trova la sua linea del Piave nella pressione emigratoria, che proprio la sinistra vorrebbe ancora gestire come ridistribuzione dei flussi irregolari, senza farsi carico del loro contenimento alla partenza.
Ci pagheranno le pensioni
L’argomentazione è varia, ma centrata soprattutto sulla crisi demografica che travaglia l’Europa, che a fronte della ipercrescita della popolazione che si affaccia a sud del Mediterraneo, renderebbe l’immigrazione inevitabile, assicurando, per oggi, la mano d’opera necessaria e, per domani, la corresponsione delle pensioni. La spiegazione economica appare troppo cruda a coloro che la fanno propria, suonando come neocolonialista, tanto più quando si parla di coprire così l’offerta di lavoro rifiutata dalla nostra gioventù, perché troppo faticosa e disagiata, vedendo nell’immigrazione la messa a disposizione di una manovalanza generica e disponibile a riempire i vuoti lasciati scoperti.
Una società multiculturale
La crudezza della spiegazione economica viene addolcita da quella sociale, cioè dalla realizzazione di una comunità multietnica, capace di dar vita ad una società multiculturale, dove la diversità verrebbe a costituire una ricchezza. Il fatto è che si dà per scontato che tutte le componenti dell’emigrazione siano portatori di una cultura, nessun dubbio che questa affermazione sia vera da un punto di vista antropologico, cioè di costituire una etnia caratterizzata da una sua identità, ma proprio per questo mantiene una grande resistenza ad integrarsi, cioè a condividere i principi fondamentali della società di arrivo.
Che cosa si teme, oltre alla difficoltà di convivenza in molte realtà, dove l’immigrazione irregolare viene vissuta come litigiosa e dedita allo smercio della droga, c’è questa resistenza difficilmente assimilabile, tale da alimentare la paura di una sostituzione etnica, qualcosa che la sinistra ha bollato come evocatrice della Shoah.
Ora etnia non è un sinonimo di razza, parola che possiamo volentieri lasciare alla classificazione dei cavalli, dei cani e dei gatti, può essere caratterizzata da elementi fisici, ma condivisi con altre etnie, sì da costituirne i tratti immediatamente percepibili (colore della pelle, forma degli occhi, posizione degli zigomi), ma quelli essenziali sono dati dai fattori culturali, consolidatisi nel corso delle generazioni (linguaggi, codici di comportamento pubblico e privato, credi, riti).
Di fatto rileva il processo storico che ha caratterizzato la nascita di una Europa radicata su una impronta giudaico-cristiana e articolata su Stati-nazione, fornendo una entità che accomuna quelle presenti nella stessa realtà territoriale, sentita e con una forte sentimento di appartenenza, che porta in sé una traccia profonda della guerra di religione con un Islam, rimasto attardato in una visione teocratica e fondamentalista.
Ora, la paura è che l’introduzione di altre etnie culturalmente incompatibili nella stessa realtà territoriale, via via che si fa più massiccia, provoca un costante annacquamento dell’etnia originaria, con l’evaporazione di quelli che erano i suoi tratti identitari. Certo si passa attraverso una sostituzione fisica, che, però, è al tempo stesso culturale, perché la nuova etnia quando lo sarà in grado, imporrà la sua cultura, questa è una lezione deducibile della storia, basta pensare alla sorte degli aborigeni americani e australiani.
La motivazione umanitaria
Comunque, si obietta, varrebbe e sempre la spiegazione umanitaria, che fonda una sorta di diritto d’asilo generalizzato a fronte di moltitudini gravate dalla guerra, dalla negazione dei diritti civili, dalla carestia, dalla povertà, in fuga disperata con l’illusione di una nuova vita che potrebbero ricostruirsi in Europa, tanto potente da vendersi ai mercanti di uomini per attraversare un Mediterraneo ormai ridotto ad un grande cimitero.
Tale diritto avrebbe una base costituzionale esplicita nell’art. 10, comma terzo, della Costituzione, laddove recita “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
A prenderla alla lettera appare solo una affermazione enfatica fino all’ipocrisia, perché significherebbe fare della Costituzione italiana una specie di lascia passare per più dei nove decimi della popolazione mondiale, al tempo in cui la norma fu votata c’era la piena consapevolezza che avrebbe permesso di entrare in Italia a tutti gli abitanti dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti.
Immigrazione ingovernabile
Quello che la sinistra ha largamente sottovalutato è stato l’impatto sulle popolazioni locali dell’immigrazione, non di quella che a suo giudizio avrebbe dovuto essere, regolare e selettiva, evocata sempre ma non realizzata neppure quando era al governo, ma di quella effettiva, risultata del tutto ingovernabile, con una ricaduta in termini di sicurezza e di convivenza civile sulle comunità dove avrebbero dovuto integrarsi.
A tutto oggi la percentuale di emigranti detenuti nelle carceri italiane supera il 30 per cento, contribuendo in maniera determinante al loro collasso. Rappresenta una riforma passibile di favorire l’integrazione delle seconde generazioni quella costituita dallo ius soli e dallo ius scholae, se pur inevitabilmente scontano la relativa impermeabilità famigliare dell’appartenenza a famiglie di prima immigrazione, ma, qualunque sia la scelta, questo richiede una severa limitazione dell’immigrazione irregolare, che se non fatta nei luoghi di partenza, richiede inevitabilmente una politica severa sugli arrivi e sui rientri.