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Rivoluzione Berlusconi: nulla sarà come prima, eppure è sempre tutto uguale

Da liberali, dobbiamo chiederci cosa sia andato storto. Perché, dopo questo lungo viaggio, viviamo nella solita Italia, sotto una granitica egemonia culturale progressista

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Nulla sarà più come prima. Eppure è sempre tutto uguale. La parabola di Silvio Berlusconi è durata trent’anni e, nel bene e nel male, ha segnato la vita della generazione di chi scrive (primo voto nel 1994) e di tutti coloro che sono nati dopo gli anni Ottanta. È molto difficile trarre un bilancio, proprio perché, in questi trent’anni, non è cambiato nulla di sostanziale.

Siamo sempre la solita Italia, statalista, illiberale, con un’egemonia culturale di sinistra granitica e istituzioni “super partes”, a cominciare dalla magistratura, che impongono una loro agenda politica progressista. Eppure nulla sarà come prima, perché Berlusconi è stato un personaggio talmente grande, talmente ingombrante, da occupare tutto lo spazio del dibattito politico, dividendo gli italiani, inesorabilmente, in berlusconiani e anti-berlusconiani.

La rivoluzione liberale riuscita

Innanzitutto va riconosciuto che la rivoluzione liberale, promessa da Berlusconi, c’è stata. Ma non è stata determinata dalla sua discesa in campo in politica. La vera rivoluzione è stata infatti quella televisiva. E non ci sarebbe mai stata senza quell’imprenditore lombardo, visionario, che ha portato in Italia la televisione commerciale, sfidando il monopolio della tv di Stato.

Le reti Fininvest ci hanno portato le grandi serie televisive e Drive In, i Puffi e il Maurizio Costanza Show. Ci hanno fatto sentire un po’ americani, nel senso migliore del termine: liberi di cambiare canale. Fino ad allora la televisione era uno strumento (ri)educativo nelle mani dello Stato e i partiti facevano a pugni per spartirsi le loro quote, per imporre la loro cultura. Berlusconi fu il primo a trattare gli italiani da adulti, lasciandoli liberi di guardare quel che piaceva loro, senza tasse e senza chiedere alcuna obbedienza.

Pare incredibile, nell’era digitale e di Internet, ma allora, nell’era analogica, solo la tv di Stato poteva trasmettere a livello nazionale, dunque Berlusconi mise in piedi una rete di tv locali che trasmettevano in sincrono. Lo Stato provò ad oscurare questo esperimento e fu solo il premier Bettino Craxi, con molto buon senso, a trovare un compromesso e permettere alla televisione non statale di continuare a vivere.

La discesa in campo

La discesa in campo del 1994, preparata negli ultimi mesi dell’anno precedente, rispose allo stesso obiettivo: spezzare un monopolio. Infatti, dopo la bufera delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli (1992-93), la reputazione di tutti i partiti era stata distrutta. Di tutti tranne che di uno: il PCI, ribattezzato in fretta e furia Pds dopo la caduta del Muro di Berlino.

Gli si sarebbero potuti opporre solo il Movimento Sociale Italiano, che però era ancora nel ghetto dei neofascisti e dunque improponibile e la Lega Nord, che era relegata ad un elettorato solo locale. Berlusconi riuscì, in quattro e quattr’otto, a costruire un partito nuovo, Forza Italia, a federarsi con l’Msi a Sud (sdoganandolo) e con la Lega Nord nel settentrione (legittimandola).

In pochi mesi riuscì a costruire un’alternativa al monopolio dei post-comunisti e persino a vincere. D’accordo, fu una vittoria illusoria, il governo durò solo sei mesi, ma comunque l’alternativa era concreta. Il periodo 1994-2011 fu l’unico di vera alternanza democratica in Italia e lo si deve soprattutto a Berlusconi. Prima c’erano solo governi che ruotavano attorno al sole della DC e dopo il 2011, almeno fino alle elezioni dell’anno scorso, ci sarebbero stati altri undici anni di governo che ruotavano attorno al sole del Pd.

La promessa non mantenuta

Berlusconi, in politica, ha rotto anche un altro monopolio: quello della cultura politica statalista. Fino a quel momento, a parte la brevissima parentesi della Dc di De Gasperi, tutti i partiti si muovevano lungo la linea tracciata dal Risorgimento: fatta l’Italia si devono “fare gli italiani”.

Berlusconi con il suo discorso “l’Italia è il Paese che amo” della discesa in campo, ribaltò questo paradigma: gli italiani erano fatti e finiti, semmai era il sistema Italia che andava cambiato, alleggerito, snellito, per permettere ai suoi cittadini di sprigionare il meglio della loro creatività. Questa era l’idea su cui si basava la promessa di rivoluzione liberale del primo governo Berlusconi.

La promessa, però, non è stata mantenuta. È rimasta sulla carta. Eppure la maggioranza sicuramente non mancava. Il secondo/terzo governo Berlusconi, incluso il suo rimpasto dell’ultimo anno, è durato dal 2001 al 2006, il più lungo della storia repubblicana. C’era tempo per cambiare tutto.

Qualche cambiamento importante è stato fatto: è quello il governo che ci ha liberati dalla moderna schiavitù della leva obbligatoria (grazie a un vero liberale, Antonio Martino, ministro della difesa) ed ha restituito pieno significato al diritto di proprietà con l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e dell’imposta di successione.

È stato anche il primo governo apertamente filo-occidentale, con coraggio è rimasto al fianco degli Usa anche nella guerra in Iraq, sfidando le maggiori potenze europee. È stato il primo apertamente filo-Israele, rompendo una lunga e triste tradizione filo-araba della prima repubblica. Però non c’è stato nulla di lontanamente definibile come una “rivoluzione” liberale.

La restaurazione

Il successivo governo Berlusconi, nel 2008-2011, sorretto da una maggioranza ancora più ampia, può addirittura essere descritto come un governo della restaurazione. Lo hanno caratterizzato una politica economica statalista, affidata interamente alla direzione di Giulio Tremonti (socialista di formazione e antesignano delle idee sovraniste contro la globalizzazione) e soprattutto una politica estera amica delle dittature, di Gheddafi come di Putin, degna delle peggior tradizione di Andreotti e Craxi nella Prima Repubblica.

Il 2011 segna la fine del berlusconismo, per come lo abbiamo conosciuto fino a quel momento. Una fine dovuta a una combinazione di strappi interni (Fini) e di pressioni esterne: quella delle maggiori potenze europee, dei giudici e di un ambiente economico che ha strumentalizzato la paura dello spread. Ma tutti loro hanno ucciso un uomo già morto, perché nel PdL del 2011 non c’era più nulla di quella spinta rivoluzionaria liberale che aveva caratterizzato la Forza Italia del 1994.

Perché si è persa quella spinta? La risposta non può che essere: Berlusconi. Era sempre lui che accentrava, in sé, tutta l’azione politica, delegando sempre meno a una classe dirigente di cui non si fidava. Perché, allora, Berlusconi si è ritirato dal suo compito rivoluzionario?

La persecuzione giudiziaria

Prima di tutto, la persecuzione giudiziaria è stata oggettivamente vera, non è propaganda berlusconiana vittimista. La persona Silvio Berlusconi ha dovuto affrontare 36 processi, più di 4 mila udienze, in trent’anni. Per essere condannato 1 (una) sola volta.

Con una persecuzione simile, chiunque avrebbe perso la testa. Berlusconi è stato sin troppo resistente, ma quando un leader sente pendere su di sé la spada di Damocle della giustizia inevitabilmente perde la voglia di fare riforme radicali e cerca compromessi. Ed è quello che può essere successo.

Gli alleati

Secondo: la scelta di alleati che, di volta in volta, si sono rivelati nemici. Qui però la responsabilità è anche dello stesso Berlusconi che ha dimostrato di essere un grande imprenditore e un pessimo politico, sempre per lo stesso motivo.

Ha confuso il potere economico, che è fondato sullo scambio, con il potere politico, che si basa sulla coercizione. Ha creduto di avere riconoscenza e fedeltà in cambio della visibilità che lui aveva dato a politici altrimenti snobbati, ma ha scoperto troppo tardi che così facendo ha dato loro la possibilità di fargli la guerra dall’interno.

La guerra culturale

Terzo: la mancanza di un interesse reale alla cultura politica. E lo si vede anche nelle sue scelte editoriali e televisive: fra un liberale e un comunista, piuttosto preferiva assumere un comunista, se avesse dimostrato di fare più lettori o audience. Sicuramente è un ragionamento che sta in piedi, da un punto di vista commerciale.

Ma in politica, se non si sfida l’egemonia culturale dell’avversario e soprattutto se non si forma una propria classe dirigente su una visione politica, alla lunga si perde. E infatti, come Berlusconi aveva promesso la riscossa della cultura liberale in Italia, così alla lunga l’ha affossata di nuovo.

Oggi l’egemonia del progressismo è così forte che anche la destra deve parlare con gli stessi termini della sinistra: contro l’Occidente, contro il mercato, contro la globalizzazione.

La politica estera

Quarto: deve esserci stato un cattivissimo consigliere in politica estera (o forse più di uno), o semplicemente Berlusconi è rimasto stregato da Putin. Fatto sta che la sua politica estera a favore della Russia e delle dittature, tipica dell’Italia socialista e democristiana della Prima Repubblica, è un tradimento importante della rivoluzione liberale.

Ha tradito, prima di tutto, l’Est Europa che si era appena liberato dal comunismo, stringendo amicizia con il loro principale persecutore del Kgb. Ha abbracciato la logica del cosiddetto “interesse nazionale”, che in realtà coincide con l’interesse delle grandi aziende di Stato. Come Prodi, prima di lui, ha legato ancor più l’Italia alle fonti energetiche delle dittature, della Russia in particolar modo, contribuendo a renderci deboli e ricattabili.

Cosa è andato storto

Lasciamo comunque che le iene facciano il loro mestiere, che gli esterofili festeggino la fine dell’“Italia del bunga bunga”. Domandiamoci, da liberali, cosa sia andato storto. Perché, dopo questi trent’anni, viviamo ancora nella solita Italia, dopo aver fatto un viaggio apparentemente lunghissimo e pieno di avventure, belle e brutte, che però ci ha lasciato a terra al punto di partenza.

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