Sentenza eversiva: non solo i centri in Albania, i giudici aboliscono tutti i rimpatri

Se de facto non esistono “paesi sicuri”, nessuno potrà mai più essere rimpatriato. Calpestati gli altri principi costituzionali coinvolti. Soluzione su due livelli

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meloni edi rama giudici

A questo punto definirla magistratura politicizzata è persino riduttivo. La sentenza con la quale il Tribunale civile di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione, non ha convalidato i trasferimenti di migranti nei centri in Albania in base al recente protocollo di intesa tra i governi di Roma e Tirana, è tecnicamente eversiva.

A tal punto, infatti, viene estesa e distorta l’interpretazione del diritto all’asilo e alla protezione internazionale, da calpestare praticamente tutti i principi coinvolti che godono di altrettanta tutela costituzionale, dalla sicurezza dello Stato alla difesa dei confini, ma anche l’equilibrio di bilancio, la tenuta dei diritti sociali ed economici, che un’accoglienza indiscriminata metterebbe sicuramente in pericolo.

Non è infatti una sentenza contro i centri in Albania, è una sentenza contro tutti i CPR (Centro permanenza rimpatrio), pure quelli situati in territorio italiano, perché praticamente più nessuno può essere rimpatriato: non solo dal CPR in Albania, ma pure da un CPR a Ladispoli.

Gli italiani devono comprendere bene il concetto che hanno voluto far passare questi giudici: se nessun paese d’origine è sicuro per definizione, allora qualunque migrante ha diritto a rimanere nel nostro Paese, nessun rimpatrio è permesso. Nessuna deroga, nemmeno nei confronti di terroristi e delinquenti. Ci dobbiamo tenere tutti. Ci dobbiamo tenere chiunque scenda da un barcone, pure se è un terrorista di Hamas.

La sentenza della CGUE

La tempestiva nota della presidente della sezione, Luciana Sangiovanni, spiega che la sentenza si fonda su una recente pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), che a sua volta richiama la direttiva 2013/32:

La designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende (…) dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’articolo 9 della direttiva 2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. Le condizioni stabilite in tale allegato devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato affinché quest’ultimo sia designato come paese di origine sicuro. (…) L’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che: essa osta a che un paese terzo sia designato come paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione, enunciate nell’allegato I di tale direttiva.

In pratica, per definire un paese d’origine “sicuro”, non debbono esserci persecuzioni, torture e discriminazioni verso nessuno e in nessuna parte del suo territorio. Anche da parte della CGUE una interpretazione discutibile delle direttive, tanto che oggi nella Ue non solo la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ma anche governi di sinistra parlano di hotspot e centri di rimpatrio al di fuori dei confini dell’Ue e riferendosi proprio al modello Italia-Albania.

Come ha perfettamente colto Augusto Minzolini su X, “c’è un’evidente strumentalizzazione. E strumentalizzazione per strumentalizzazione, allora con questo metro neppure l’Italia è adatta ad accoglierli, basta ricordare i casi Cucchi e Aldrovandi (ma in generale, aggiungeremmo, le condizioni degradanti delle nostre carceri, per cui l’Italia è stata condannata dalla stessa CGUE, ndr). Purtroppo la magistratura italiana è affetta da una malattia cronica: la voglia delle toghe di fare politica”.

Quello enunciato dalla CGUE è un criterio assoluto, che a rigor di logica impedirebbe anche l’estradizione verso un qualunque Paese del mondo. E come tale inapplicabile, perché nel mondo reale nessun Paese sarebbe in grado di soddisfarlo.

Tra l’altro, abbiamo qui anche una enorme questione di gerarchia delle fonti. Il nostro sistema giudiziario si adegua ad una pronuncia della CGUE che però si fonda su una mera direttiva. Non si tratta, per quanto anch’essa discutibile, di supremazia dei Trattati, per esempio dei fantomatici “valori europei”, ad esempio lo “stato di diritto” – il che suona tanto più assurdo e inaccettabile.

Divieto di rimpatrio

Ha ben compreso la portata di questa sentenza anche la premier Giorgia Meloni:

La questione è molto più ampia perché quello che i giudici dicono è che non esistono Paesi sicuri. Quindi, il problema non c’è in Albania, il problema è che nessuno potrà mai essere più rimpatriato, il problema è che tu non puoi respingere la gente e non puoi fare nessuna politica di difesa dei tuoi confini. Quindi, spero che mi si dica anche come si risolve, spero che mi si dica come si gestisce l’ordine pubblico, chi pagherà per i miliardi di accoglienza che ci dovremmo caricare (…). Troverò una soluzione anche a questo problema. Perderemo ancora del tempo ma ho già convocato il Consiglio dei ministri lunedì anche per risolvere questo problema.

Quale soluzione?

Come si risolve il problema? A nostro avviso la soluzione passa per due diversi livelli. Primo livello, normativo/interpretativo: la precisazione di cosa si intenda per “paese sicuro” attraverso una legge nazionale, come suggerisce la presidente Meloni; attraverso una battaglia legale, impugnando la sentenza, come suggerisce il ministro Piantedosi; e infine attraverso un chiarimento normativo a livello europeo, che Von der Leyen molto difficilmente potrà negare, assediata com’è da una maggioranza di Stati membri che solo una cosa veramente vogliono: respingere tutti quelli che non hanno diritto all’asilo (precisamente come i nostri 12 in Albania).

Il secondo livello – al quale però il centrodestra fa di tutto per non arrivare – è sistemico e riguarda l’ordinamento giudiziario e politico: limitare lo strapotere dei giudici comunisti e la pretesa supremazia dei Trattati sulla Costituzione. Bene quindi la riforma della giustizia, separazione delle carriere e riforma del Csm, ma un vero cambiamento richiede soprattutto una Corte costituzionale non più piddina. Come si fa? Si fa scegliendo i nomi giusti quando si è in maggioranza in Parlamento, ma si fa anche con l’elezione diretta del presidente della Repubblica – non si fa con il premierato.

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