Politica

Studenti pro-Pal giocano al jihad. Ma non è la prima volta a Torino

Palazzo Nuovo ha una lunga storia di occupazioni e manifestazioni di odio contro Israele e l’Occidente. Nel 2003 il vergognoso volantino sulla strage di Nassiriya

pro pal Torino

Giocano al jihad gli studenti pro-Palestina che occupano gli atenei italiani, fieri di essere chiamati “intifada studentesca”. Il 23 maggio quelli di Torino hanno anche invitato un imam, Brahim Baya, a guidare una preghiera collettiva. Era previsto che il giorno successivo, un venerdì, andasse anche al Politecnico, ma su richiesta del Rettore del Politecnico, Stefano Paolo Corgnati, la Questura di Torino lo ha diffidato e l’evento è stato annullato.

Incitamento al jihad

“È scandaloso che la Questura abbia vietato una preghiera – ha protestato Baya – il problema è l’islamofobia di questo Paese”. Ma quello che ha indotto le autorità a intervenire, non è stata la preghiera, è stato il sermone che aveva pronunciato il giorno prima. Baya infatti aveva invitato al jihad contro Israele definendo quella dei palestinesi una resistenza necessaria contro l’ingiustizia e il male. Il popolo palestinese – aveva detto – ha resistito “di fronte a questa furia omicida, questa furia genocida, uscita della peggiori barbarie della storia che non tiene in considerazione nessuna umanità, nessun diritto umano”.

Sono parole che desterebbero allarme anche se fossero pronunciate in una moschea e non in una laica, indipendente sede accademica. In effetti, la domanda che sorge è non se, ma chissà quante volte le ha già proferite in una moschea; e in quante moschee italiane si parla in questi termini contro Israele, l’Occidente, gli infedeli. Più di 20 anni fa Magdi Cristiano Allam, dopo aver ascoltato i sermoni in arabo pronunciati il venerdì nella Grande Moschea di Roma e in altri centri islamici, aveva denunciato che ci sono moschee in Italia nelle quali si istiga all’odio contro l’Occidente e si esalta il jihad.

Occupazioni senza ostacoli

Ma di grave c’è molto altro. Ancora una volta degli studenti occupano delle sedi universitarie, impediscono lo svolgimento delle attività didattiche, usano edifici pubblici praticamente senza trovare ostacoli, senza che le autorità accademiche chiedano l’intervento delle forze di sicurezza, e, almeno stando a quanto è successo finora, senza che poi, a occupazione terminata, i responsabili dei danni materiali causati alle strutture e di quelli inflitti ai docenti e soprattutto agli altri studenti – lezioni sospese, sessioni di esame e discussioni di tesi di laurea rimandate – siano chiamati a risponderne con sanzioni e provvedimenti disciplinari.

In sintonia con le notizie dagli altri atenei, i mass media raccontano i fatti con titoli come “Anche a Torino gli studenti universitari hanno deciso di occupare le Università”, “Altra giornata di mobilitazione per gli studenti torinesi”… A parte la sciatteria di molti articoli in cui si parla di “facoltà” occupate, istituti che la riforma Gelmini ha abolito nel 2010, l’idea evocata è di una mobilitazione generale. Invece a Torino gli studenti attivi sono qualche centinaio (più gli esponenti di centri sociali come Askatasuna) su un totale di oltre 81mila iscritti all’Università e 39.700 al Politecnico.

Questa volta si sono anche permessi di invitare un musulmano a fare l’apologia del jihad. Non a caso hanno scelto Palazzo Nuovo, la sede storica dei corsi di laurea umanistici e delle contestazioni fin dal ’68, quando il movimento studentesco trasferì la sua sede nell’edificio da poco terminato. Da allora infatti Palazzo Nuovo ha una lunga storia di “profanazioni”, di utilizzo improprio dei suoi spazi e delle sue risorse.

Un muro contro Israele

Il 2005 è una delle volte in cui oggetto delle proteste è stato Israele. Solo perché una docente aveva osato invitare il vice ambasciatore israeliano a tenere una lezione nel suo corso di laurea, gli studenti del Collettivo universitario autonomo per protesta eressero una specie di muro a metà dell’immenso atrio di Palazzo Nuovo lasciando soltanto un piccolo varco al centro per superarlo. Spiegavano con assemblee e volantini che serviva a far capire “l’infamia del muro di Israele”, intendendo la barriera costruita per meglio controllare gli ingressi dalla Cisgiordania, che servì a ridurre drasticamente gli attentati suicidi.

Gli autonomi inoltre raccolsero firme per chiedere che l’università non invitasse rappresentanti istituzionali di Israele a partecipare a iniziative o lezioni. Neanche gli evidenti, serissimi problemi di sicurezza in un edificio frequentato all’epoca da oltre duemila docenti e 70.000 studenti valse a far sì che il rettore prendesse provvedimenti.

Il volantino su Nassiriya

Ma, tra i tanti, l’episodio forse più vergognoso risale al 2003. L’Italia partecipava all’operazione militare “Antica Babilonia”, in Iraq. Il 12 novembre un camion cisterna pieno di esplosivo raggiunse l’ingresso di Maestrale, una delle due basi italiane a Nassiriya, e fu fatto detonare. Fu una strage. Morirono 12 carabinieri, cinque soldati dell’esercito, due civili italiani e inoltre nove cittadini iracheni.

All’epoca i militanti di un centro sociale da tempo si erano impadroniti di un’aula di Palazzo Nuovo e ne avevano fatto la loro sede sotto gli occhi di tutti, nell’indifferenza del corpo accademico e, salvo pochi, delle migliaia di studenti che ogni giorno frequentavano la sede. I militanti di quel centro sociale prepararono un volantino per festeggiare il massacro, nei giorni successivi distribuito all’ingresso del palazzo e fatto circolare in città. “Dieci, cento, mille Nassiriya” c’era scritto. Corse attendibile voce che avessero fatto le fotocopie del volantino usando la fotocopiatrice della facoltà di Lettere.

Giocano al jihad gli studenti che in questi giorni chiedono il boicottaggio degli atenei israeliani, anche loro sicuri che il nemico da abbattere sia l’Occidente, senza un pensiero contro Hamas che continua a lanciare missili su Israele e a tenere prigionieri gli ostaggi finora sopravvissuti. Scherzano col fuoco. Quello che non sanno è che i jihadisti, quelli veri, non per questo li risparmierebbero.