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Centrismo

Tertium (polum) non datur: perché il “centro” è destinato a fallire

Breve excursus dei molti esperimenti falliti, fino al naufragio del Terzo Polo di Renzi e Calenda. E se la terza via non esistesse? Il “centro” come non luogo

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Centro: il convitato di pietra (e miraggio) della politica italiana. Non c’è giorno in cui la sua presenza non aleggi nei talk show, negli editoriali, nelle indiscrezioni più o meno attendibili. Una categoria sospesa tra l’astratto e il metafisico che intriga alcuni commentatori, ma lascia del tutto indifferenti le persone comuni. Conoscere il suo peso è difficile, comprendere la sua utilità una mission impossible degna di Ethan Hunt.

Cos’è il centro?

In che modo definire il centro? Verrebbe in mente il paragone con l’araba fenice: “Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. In effetti, è un non luogo nel quale convergono le aspirazioni di politici – o presunti tali – alla ricerca di visibilità e protagonismo, che ambiscono a raggiungere il loro “centro di gravità permanente”.

Numerose sono le sfumature di questo microcosmo e ognuna di esse comprende migliaia di manovre, manovrine e giochi di palazzo. Ironia della sorte, nessun progetto di centro è durato più a lungo di una campagna elettorale.

Il Patto di Martinazzoli e Segni

Nel 1994 il Partito popolare italiano di Martinazzoli e il Patto Segni crearono una coalizione alternativa ai poli di Berlusconi (delle Libertà al nord e del Buongoverno al centro-sud) e ai Progressisti di Occhetto. Il Patto per l’Italia dovette accontentarsi di un magro risultato: dal 47 per cento che il quadripartito aveva ottenuto il 5 aprile 1992 gli epigoni della DC sprofondarono al 15 per cento, ritrovandosi con un pugno di seggi in mano.

Era il segno dei tempi. Il crollo del Muro di Berlino archiviò il ruolo decisivo del centro come argine anticomunista. Tre anni dopo, l’introduzione del sistema maggioritario e la scomparsa dei partiti tradizionali avrebbero decretato la fine della Prima Repubblica. Nel Patto sorsero dei malumori inconciliabili tra la fazione cristiano sociale e quella che guardava a Forza Italia. Dunque, l’alleanza si sciolse nell’arco di pochi mesi.

Esperimenti di laboratorio

L’ossessione centrista non si è mai arrestata. Pensiamo agli esperimenti di laboratorio come Rinnovamento italiano o alle fusioni a freddo (ad esempio I Democratici prodiani, confluiti ne La Margherita), ma anche al rigoglio delle mini sigle d’ispirazione dorotea, condannate all’irrilevanza.

Un caso a parte l’Udeur di Mastella che, con la sua microscopica pattuglia parlamentare, ha favorito la caduta del secondo governo Prodi dopo esserne stato l’ago della bilancia.

I vassalli della sinistra

Esiste poi il centro vassallo, sedotto dalle sirene della sinistra. Il Nuovo polo di Fini, Casini e Rutelli aveva come unico collante il livore contro Berlusconi. I tre leader, di estrazione diversissima, non facevano mistero di voler indebolire la leadership del centrodestra per formare un governo ammucchiata, che includesse tutto e il contrario di tutto.

Arrivò infine Scelta Civica, la lista di Mario Monti aperta alla società civile – locuzione senza capo né coda. Il suo iter fu piuttosto lineare: corse alle elezioni del 2013 insieme ai personaggi di cui sopra, prese uno striminzito 8 per cento e trovò il proprio rigor mortis (o Montis, qualsivoglia) come costola dei governi a guida Pd.

La terza via non esiste

Queste dinamiche evidenziano un dato di fatto: ci sono elementi strutturali che impediscono l’esistenza della terza via nel nostro scenario politico. Ciò significa che quanti si proclamano “terzi”, molto spesso, fanno l’interesse di una precisa parte.

Per anni abbiamo abusato del termine “centro” (centrosinistra vs centrodestra) come se potesse frenare gli istinti dell’elettorato. Ma questa, prima ancora che una costrizione lessicale, è una forzatura ideologica. Aveva ragione Pinuccio Tatarella quando diceva che il centro non è un valore, ma una zattera che va dalla riva destra a quella sinistra.

La vaghezza democristiana non ha fatto altro che rallentare l’affermazione del bipolarismo sul modello anglosassone: una destra moderna, di stampo liberalconservatore e pro-mercato, distinta e contrapposta ad una sinistra riformatrice, gradualista in economia e inserita nella famiglia socialdemocratica.

Il naufragio del Terzo polo

I vecchi peones hanno un nuovo obiettivo: il Terzo polo, un cartello elettorale che può sfondare in via della Spiga o in Piazza Euclide, non certo nel resto del Paese. Matteo Renzi e Carlo Calenda si sono prodigati per raccattare volti a destra e a manca così da costruire una federazione post-draghiana.

Peccato che tra i due si sia consumato un divorzio improvviso (ma non definitivo): Calenda non ha accettato di buon grado che Renzi diventasse il direttore editoriale de Il Riformista, criticando il mancato scioglimento di Italia Viva. Insomma, tertium (polum) non datur. Ciascuno andrà per la propria strada, almeno per ora.

Non bisogna trascurare i numeri disastrosi di Azione-Italia Viva nelle regionali in Lombardia e Lazio, oltre al clamoroso flop in Friuli-Venezia Giulia, dove il settimo polo è stato doppiato dalla candidata free vax. Ulteriore dimostrazione che delle praterie moderate cantate dalla bella stampa non vi è traccia. Per Calenda la colpa va attribuita agli elettori, s’intende.

Limiti e contraddizioni

L’incoerenza del Terzo polo è emersa in un attimo. Fingersi di centro, cancellando con un colpo di spugna il passato di molti esponenti tra le fila di Pds-Ds-Pd, si è rivelata una identità non credibile. Come non è stato credibile costruirsi, decostruirsi, compiere metamorfosi al limite del ridicolo. O, peggio ancora, ritenersi gli alfieri del pensiero liberale confondendo Einaudi – questo sconosciuto – con il Verhofstadt di turno.

I cugini beceri dei Libdems hanno trovato un passatempo: coniare etichette ad libitum. Ossia, nascondere la polvere di sinistra sotto un tappeto di nomi altisonanti. Nasce così il polo liberalsocialista (altra versione dell’ossimorico socialista liberale), liberaldemocratico, liberalpopolare, repubblicano. Manca all’appello l’unico attributo che si addice allo pseudo-centro: liberal.

L’arroganza terzopolista

Gli adepti del perso polo, da veri liberal, hanno la pretesa di essere ultra competenti, serissimi, gli unici in grado di capire la realtà contemporanea. Chiusi in una torre d’avorio, dediti al culto di Draghi e impegnati a tessere le lodi di Macron, ostentano una saccenteria insopportabile. Guai a confutare i dogmi eurolirici: potreste essere tacciati di analfabetismo funzionale.

Il curioso caso di Carlo Calenda

Torniamo a Carlo Calenda. Il protetto di Montezemolo, giacobino de noantri dal carattere narcisista e velleitario, ha sfogato sui social l’ira per la rottura con Renzi inanellando una serie di gaffes. Elencare le quisquilie di Calenda sarebbe un esercizio infruttuoso (e una noia tremenda per chiunque legga l’articolo). Ma badate bene, c’è un dettaglio che non può rimanere inosservato. Guardate qua:

Tweet Calenda e Fini

La somiglianza tra il tweet di Calenda e le parole di Gianfranco Fini è impressionante. Sorge il dubbio che il segretario di Azione abbia preso spunto dal virgolettato dell’ex presidente della Camera, risalente al 2017.

L’impostazione del primo periodo è identica; si noti anche la frase successiva sulla corruttela, abbastanza simile all’originale (“Non ho mai favorito alcuno” sembra essere ripreso da Calenda in “Non ho mai accettato soldi a titolo personale da nessuno”). Un lapsus freudiano, forse? L’epilogo della tragicommedia terzopolista?

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