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Titoli di coda, ma vedove e orfani delle restrizioni Covid non ci stanno

Due piccoli passi verso il definito superamento dell’apparato pandemico, ma sul cammino del governo verso la normalità ancora ostacoli inattesi

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Il governo ha mosso altri due piccoli passi verso il definito superamento dell’apparato pandemico costruito a partire da marzo 2020.

Le due norme

In pratica, all’interno del decreto anti-rave, sono state inserite due norme con cui è stato abolito il test obbligatorio al termine dei cinque giorni canonici di isolamento domiciliari in seguito all’accertata positività e abrogata la necessità di mostrare il Green Pass per accedere alle strutture sanitarie.

Questo significa che il famigerato e detestato certificato verde cessa di esercitare la sua funzione in qualsiasi ambito ma non di esistere, in quanto il precedente Esecutivo ne aveva prolungato la validità fino al 2025.

Per cui, occorre ancora un ulteriore sforzo per la cancellazione definitiva che, di fatto, archivierebbe la lunga stagione di imposizioni e costrizioni sanitarie.

Eppure, questo tardivo allineamento alle posizioni già assunte dalla gran parte dei Paesi occidentali nei mesi precedenti ha fatto storcere il naso a chi vorrebbe ancora regolamentare in maniera rigida la gestione del virus venuto dalla Cina.

Italia caso a parte

È il caso della dottoressa Antonella Viola che, in un editoriale su La Stampa, ha severamente criticato la svolta del ministro Orazio Schillaci, evidenziando che le decisioni adottate vanno ben oltre il superamento dell’emergenza.

Nulla conta che, per esempio, nel Regno Unito il tracciamento e l’isolamento sono stati eliminati da tempo senza che si sia verificata alcuna catastrofe. L’Italia in tutta questa storia sembra un caso a parte. Infatti, la Viola per dar forza ai suoi argomenti è andata sul caso concreto.

Questa misura potrebbe danneggiare alcuni settori, come il cinema e il teatro, perché temendo di trovarsi accanto un positivo molte persone potrebbero decidere di rinunciare a quella vita sociale che avevano appena ripreso.

O forse, queste stesse persone hanno già contratto la malattia perché erano state rassicurate sul fatto che la certificazione verde fosse la garanzia di ritrovarsi tra persone non contagiate o non contagiose.

Purtroppo, non era così e si è scoperto che una delle misure più draconiane fosse fondata su un presupposto insussistente. Questo non viene rimarcato dalla Viola che, però, si rammarica perché le persone non saranno più costrette ai domiciliari per un numero indefinito di giorni in attesa dell’agognato tampone negativo che ha rappresentato in questo lungo biennio uno strumento repressivo.

Basti pensare alle tante ordinanze nazionali e regionali con cui venivano stressati mediante quarantene e ripetuti test coloro che si erano recati all’estero o alla proposta ricciardiana di procedere a screening di massa come in Cina. Per di più, va senza dire che le attività di cui si preoccupa la Viola sono state danneggiate pesantemente dalle chiusure insensate più che dalla visione non più tremendista di Schillaci.

Finalmente la politica

Eppure, quelli che sono provvedimenti ormai inevitabili, per far uscire il Paese dal pantano in cui si era ficcato con i due governi in carica durante questa fase, hanno suscitato l’aspra reazione della Viola:

La fine della pandemia è stata quindi una decisione politica, non scientifica. E questa decisione può costarci molto cara perché rischia di far aumentare il numero di morti e di pazienti ricoverati negli ospedali e di farci travolgere da nuove ondate o, nello scenario peggiore, da una nuova variante.

Il fatto che sia stata assunta una decisione finalmente politica – e non “scientifica” – dovrebbe rallegrare chi ha ancora a cuore le sorti della democrazia liberale.

La sovrastruttura scientifica

Peraltro, una certa narrazione scientifica (mediaticamente predominante) ha rappresentato solo la sovrastruttura per mettere in sordina diritti e libertà fondamentali. D’altronde, era stato l’allora ministro Speranza a vergare nella sua opera, poi rimasta inedita, che la pandemia sarebbe stata l’occasione con cui ripristinare una nuova egemonia culturale.

Anche quello era un ragionamento più politico che scientifico ma il tutto passò in cavalleria perché si saldava con il pensiero dei tanti esperti che volevano combattere il virus secondo il modello autoritario congegnato dal governo cinese; lo stesso modello che si vorrebbe perpetuare anche a emergenza più che terminata.

Finale di partita

Peraltro, pure la narrazione che prefigura scenari da incubo non funziona più, così come il richiamo ad altri terribili virus in arrivo. Pure il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù, sembra voler chiudere questa stagione.

Intervistato dal Corriere della Sera, ha dichiarato che il Covid è adesso meno letale dell’influenza e che non si può più “elevare una malattia infettiva a emblema di urgenza sociale costante a dispetto di altre patologie più impattanti”. Le parole di Palù sembrano, dunque, chiudere la partita.

Ostacoli inattesi

Eppure il cammino del governo per affrancarsi dall’approccio rigido di chi lo ha preceduto trova sempre qualche ostacolo inatteso sul suo percorso. È il caso della senatrice Licia Ronzulli che ha votato in dissenso rispetto alla maggioranza sulla riammissione in servizio dei medici e del personale sanitario non in regola con le dosi.

Si tratta di una piccola crepa che, comunque, rappresenta un segnale d’allarme e che dimostra quanto sia faticoso riportare la vicenda pandemica sui binari della normalità ripristinando il giusto equilibrio tra diritti individuali e interesse collettivo. “Non è finita fin quando non è finita”, come recita un celebre aforisma coniato da Yogi Berra.