Tolto l’allarme fascismo, cosa resta del Pd?

Una concezione prettamente populista, basata sulla contrapposizione fra ricchi e poveri. Una costante in tutte le sue “battaglie”, dall’autonomia differenziata all’immigrazione

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Lasciamo il Partito democratico nella sua sempre più ampia e complessa classificatoria della destra: di destra nuda e semplice sembra trovarne poca, ma da qui tutto un crescendo, destra-destra, ultradestra, destra eversiva, destra fascistoide, destra fascista, destra nazi-fascista, anche se l’attribuzione dell’una o dell’altra qualifica dipende assai meno da chiari criteri, quanto invece dalla finalità propagandistica del momento.

Così il governo di centrodestra, nel suo insieme e nei suoi componenti più rappresentativi, a cominciare dalla stessa presidente del Consiglio, se le sono viste scaricate addosso tutte, non ultima, ad opera di un intellettuale di prossimità, Luciano Canfora, quella di nazifascista. Non sarebbe male, però, che il partitone, uscito in ottima salute dalle due ultime elezioni regionali, trovasse modo e tempo per interrogarsi su se stesso, cioè di quale sia la sua concezione di fondo della società in cui opera.

La contrapposizione ricchi-poveri

Di quella marxista non è rimasta neppure una infarinatura, tanto da rifarsi alla bisogna ai classici del liberalismo e del socialismo riformista, semplicemente perché la lotta di classe è venuta meno anche nella terminologia usata, dato che comunque si consideri la società attuale, liquida o composita che dir si voglia, non è più articolata in classi, come compattate da interessi comuni.

Con cosa l’ha sostituita, con una completamente prettamente populista, basata sulla contrapposizione fra ricchi e poveri, portata all’estremo a quella fra super-ricchi e tutti gli altri che non lo sono. Insomma a contare non sarebbe più la classe ma il reddito, con la ovvia semplificazione che al di sopra dei guadagni fuori misura, tutti gli altri, lavoratori, subordinati e autonomi darebbero vita ad una tendenziale unità, in forza del nemico comune costituito dai super-ricchi. Fra questi ci sarebbero i grandi evasori fiscali, i signori della finanza improduttiva, i clienti privilegiati dei servizi privati di eccellenza, quelli che debitamente tassati potrebbero fornire le risorse necessarie per riforme egualitarie.

Quella che è rimasta è l’attenzione tipica della visione socialista, del tutto privilegiata, alla redistribuzione rispetto alla produzione, dando per scontato che questo sia già possibile recuperando l’evasione e introducendo una tassazione fortemente progressiva; di fatto sostituendo alla classica tendenza alla proletarizzazione quella alla pauperizzazione, che nella versione più radicale – quella coltivata da Maurizio Landini, leader di una Cgil che fa da avanguardia al partito – dovrebbe dar luogo ad una “rivolta sociale”.

Così resa la concezione attribuita al Pd è fortemente semplificata, non esente dal rischio di apparire una caricatura, ma questa della contrapposizione fra ricchi e poveri è una costante che affiora in tutte le sue battaglie, a cominciare da quella elettiva sulla sanità pubblica, che verrebbe smantellata a favore delle cliniche private, con emarginazione di quanti, penalizzati dalle interminabili liste di attesa, non possano permettersi il lusso di ricorrere al privato.

Autonomia e immigrazione

La stessa musica fa da sfondo alla duplice questione calda, anzi caldissima, dell’autonomia differenziata e dell’immigrazione. Rispetto alla prima – la concessione di tale autonomia maggiorata – interesserebbe solo le regioni più ricche, penalizzando quelle più povere, accentuando la divisione fra un Nord ad alto reddito e un Sud a basso reddito, senza una parola circa quella che ne sarebbe una conseguenza virtuosa, di mettere alla luce la ben diversa capacità di rendere le risorse disponibili efficienti ed efficaci.

Riguardo alla seconda – l’ondata emigratoria dai paesi poveri verso i paesi ricchi sarebbe non solo inevitabile ma anche giustificata dall’essere il divario frutto di uno sfruttamento secolare, senza dar conto né della debolezza congenita delle leadership locali, né della ricaduta sulla identità dei paesi di ingresso. Insomma, gratta-gratta, è sempre tutta una questione di soldi, con un benservito alle condizioni strutturali relative al grado di maturazione di quella rivoluzione borghese che nella originaria visione marxista costituiva la assoluta premessa di ogni successiva emancipazione.

Il fatto è che una volta sostituita alla condizione di classe quella del reddito, questa non risulta affatto tale da poter garantire l’esistenza di una categoria uniforme in corrispondenza di una certa fascia. Tanto più che la definizione dei “ricchi” risulta poi estremamente elastica, direi a fisarmonica, a seconda della questione trattata, spaziando da super-ricchi a benestanti con a conseguenza un allargamento o un appiattimento della categoria dei poveri, che comunque sconfinano sempre in quelli ricadenti nell’estrema povertà.

L’esondazione dei sindacati

Lo stesso concetto di ceto medio, se costruito in funzione del reddito, taglia a mezzo nello stesso universo dei lavoratori subordinati, che di conseguenza perdono un loro rilievo autonomo, costringendo non per nulla lo stesso sindacato a far valere rivendicazioni politiche a portata generale.

Al riguardo, quella che appare una chiara esondazione di Cgil e Uil dall’ambito più strettamente rivendicativo verso una contrapposizione politica a tutto campo nei confronti del governo in essere, è in parte dettata da un istinto di conservazione, essendo venuti meno i suoi referenti storici a fronte di un mondo del lavoro sempre più frammentato e spezzettato.

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