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Tre ragioni per dire sì alla Flat Tax. Intervista ad Alberto Mingardi

Alberto Mingardi smonta alcune obiezioni alla flat tax e indica tre buoni motivi per introdurla: meno caos, più produttività, aiuto a programmare il proprio futuro

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Quale coalizione offre maggiori garanzie di difesa delle nostre libertà. I falsi miti e i vantaggi della flat tax. Il cortocircuito sulla transizione green di una parte rilevante del mondo politico e intellettuale. Di questi temi abbiamo parlato con Alberto Mingardi, tra i fondatori e direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, professore associato all’università IULM di Milano e segretario della Mont Pelerin Society.

Centrodestra e Terzo Polo più rassicuranti

WILLIAM ZANELLATO: Professor Mingardi, le coalizioni politiche sono ben definite. Stante lo stato poco brillante delle libertà economiche e della proprietà privata in Italia, qual è a suo avviso la coalizione che, visti i programmi, offre più garanzie se non altro di evitare un ulteriore peggioramento?

ALBERTO MINGARDI: Nel 2006 l’Unione di Prodi produsse un programma elettorale di 281 pagine. Era eccessivo e persino ridicolo nell’offrire tanti dettagli ma credo sia stata l’ultima volta in cui si è presentato davvero un programma elettorale.

I partiti hanno preso l’abitudine di mettere assieme alcuni punti vaghissimi, praticamente delle slides a bullet point, nella duplice consapevolezza che gli elettori i programmi non li leggono e che i loro piani saranno con tutta probabilità sconvolti dalle circostanze.

Quindi da una parte si collezionano punti che sono letteralmente dettati da specifici gruppi d’interesse (così questa o quella “conf” è lieta di dare la propria benedizione, e lo stesso vale ovviamente per questo o quel sindacato) e dall’altra si lanciano macro-slogan. Conta dunque, come ha scritto di recente Angelo Panebianco, soprattutto il valore segnaletico delle promesse: dico “flat tax” e l’elettore capisce che magari non le taglio, ma almeno non aumenterò le tasse.

Da questo punto di vista, mi sembra abbastanza evidente che il centrosinistra si propone agli elettori con un impianto solidamente dirigista. A Enrico Letta, che è un moderato e una persona di buon senso, è toccato in sorte essere a capo del Pd più “a sinistra” da che è iniziata la storia di quel partito.

Centrodestra e Terzo Polo hanno entrambi alcune proposte “rassicuranti”, da un punto di vista liberale, e altre meno. Il Terzo Polo (che ha senz’altro presentato il programma più strutturato) propone, fra le altre cose, una forte semplificazione del sistema fiscale e una serie di idee per la scuola, tema Cenerentola ma importantissimo, fra cui anche ampliare gli spazi della libertà educativa.

Scorrendo il programma del centrodestra, mi sembra abbia moderato alcune sue proposte, come l’abolizione della Legge Fornero che sarebbe disastrosa, e diventa invece la più condivisibile “flessibilità in uscita” dal mondo del lavoro. La parola d’ordine che domina sui giornali è quella della flat tax ma il programma di coalizione mi sembra non prevedere iniziative organiche di riforma fiscale, quanto, di nuovo, una serie di interventi disorganici.

Secondo tutti i sondaggi, le elezioni le vincerà il centrodestra, l’unica incognita è con quanto distacco sul secondo arrivato. Su alcuni temi i suoi leader danno segnali rassicuranti: per esempio sulle iniziative in caso di aumento dei contagi Covid.

Ma occhio a golden power e spesa pubblica

Su altri un po’ meno: parlano, per esempio, di estensione della golden power, quando già oggi ne sono escluse solo le latterie. E soprattutto quando la golden power rappresenta un attacco ai diritti di proprietà: le imprese italiane degli imprenditori italiani tanto care, a parole, ai politici, varranno di più o di meno se i loro proprietari non le possono vendere senza chiedere il permesso a Palazzo Chigi?

La buona notizia è che questa volta nessuno propone cose avventuristiche, sotto il profilo della finanza pubblica. La cattiva notizia è che nessuno propone di mettere sotto controllo la spesa pubblica. Ma del resto per citare un grande giornalista americano, H.L. Mencken, “lo Stato è un mediatore di saccheggi e ogni elezione è una sorta di asta di beni rubati”.

Falsi miti sulla flat tax

WZ: Rispetto alla flat tax proposta dalla coalizione di centro destra. Al di là delle questioni tecniche è importante, dal suo punto di vista, difendere il principio teorico della proporzionalità anziché la progressività dell’imposta?

AM: L’obiezione rivolta alla flat tax è che essa “scasserebbe” la progressività del sistema fiscale che, piaccia o meno, è nella Costituzione. In realtà, questo non è vero, perché la curvatura progressiva dovrebbe essere del sistema fiscale nel suo complesso, non di una singola imposta.

Una aliquota proporzionale dell’imposta sul reddito è perfettamente compatibile con un sistema fiscale progressivo, se c’è una no tax area. In più, la flat tax (come sapevano bene i suoi promotori storici, a partire da Milton Friedman) si combina bene con una imposta negativa sul reddito, che potrebbe essere un buon sostituto del reddito di cittadinanza introdotto dal governo giallo-verde.

È bene sempre ricordare che un’aliquota proporzionale non significa che il milionario e l’operaio “pagano uguale”: pagano la stessa percentuale di un reddito che è ben diverso, per tacere delle altre imposte. L’idea delle imposte proporzionali era che ciascuno contribuisse alla spesa in proporzione al suo reddito, ipotizzando che egli beneficiasse della spesa pubblica in misura proporzionale, grosso modo, alla sua ricchezza.

Questo perché all’epoca lo Stato offriva essenzialmente servizi di protezione (polizia e difesa nazionale) che andavano per così dire “naturalmente” tanto più a vantaggio di una persona tante più erano le sue proprietà che dovevano essere preservate da eventuali furti, eccetera. Oggi la spesa pubblica è fatta in modo un po’ diverso e tendono a beneficiarne soprattutto le classi medie.

Tre ragioni a favore della flat tax

Di flat tax si parla tanto, e spesso a sproposito. Ci sono tre ragioni per così dire contingenti a favore di una tassa piatta, delle quali credo bisognerebbe parlare di più. La prima è che il sistema fiscale italiano è frutto di una lunga sedimentazione di provvedimenti, misure, spese fiscali, bonus, aiuti, a vantaggio ora di quello ora di questo. Il risultato è un caos profondamente arbitrario, nel quale è molto raro che due persone con lo stesso reddito paghino le stesse tasse. Vince, in buona sostanza, chi meglio sa “navigare” il sistema.

È venuto il momento di mettere un po’ di ordine e l’idea di una aliquota unica “costringe” a mettere ordine. È chiaro che non basta ridurre il numero delle aliquote per semplificare ma il passaggio a una imposta flat costringerebbe a mettere mano alle spese fiscali e implicherebbe cambiamenti profondi e “organici”.

La seconda è che ormai sempre più di noi hanno lavori e carriere discontinue, coi quali pianificare il proprio futuro è difficile di per sé, ma a maggior ragione se io non so bene figurarmi quante tasse esattamente pagherò il prossimo anno.

Non solo la selva di bonus e spese fiscali mi rende complicato calcolare la mia posizione ma un minimo cambiamento dei miei proventi complessivi può “sbalzarmi” nello scaglione successivo dell’imposta sul reddito e con tutta probabilità me ne accorgerò solo a babbo morto. Con la flat tax, il primo di gennaio io so che verrò tassato, ad esempio, per il 25 per cento del mio reddito, quale che sia. Per quanti hanno carriere discontinue (a partire, molto spesso, dalle donne), è un bell’aiuto.

La terza è che l’Italia, come ci diciamo da anni, deve riguadagnare produttività ed è improbabile che ciò possa avvenire se non si riduce l’aliquota marginale, ovvero quanto il contribuente deve versare se guadagna un euro in più rispetto a quanto pagato per lo scaglione d’imposta precedente.

La flat tax è ad aliquota marginale unica, tranne per i redditi bassi, che non pagano le tasse. Quindi, potrebbe rappresentare una grossa spinta a lavorare e intraprendere di più.

Il cortocircuito sulla transizione ecologica

WZ: La crisi energetica sarà il primo grande snodo da affrontare. L‘Europa e gli Stati Uniti non dovrebbero tornare a produrre energia investendo su nucleare e idrocarburi? È necessario uscire da questa transizione ecologica calata dall’alto e di conseguenza abbandonare i piani che prevedono scadenze di decarbonizzazione, per superare strutturalmente la crisi?

AM: Non si è mai vista, nella storia, una transizione tecnologica che avvenga dall’alto, perché l’hanno “decisa” i politici, e non a causa dello sviluppo di innovazioni tecnologiche “dal basso”.

Il problema è che oramai la transizione ecologica è diventata una specie di vitello d’oro e guai a chi la tocca. Il tutto in una situazione davvero paradossale. Perlomeno da febbraio, cioè da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, un segmento rilevante del mondo politico e intellettuale è entusiasta dell’idea di dividere di nuovo il mondo in blocchi, Stati Uniti ed Europa dovrebbero fare per sé riducendo drasticamente i rapporti con i Paesi che non sono liberal-democrazie.

A me lascia non poco perplesso il fatto che si tratta degli stessi gruppi politico-intellettuali che poi spingono l’acceleratore sulla lotta al cambiamento climatico. Che però è per definizione mera testimonianza, se decidiamo che noi con la Russia e con la Cina non ci parliamo più.

L’amara verità è che quello che conta più di tutto, nella politica contemporanea, è il cosiddetto virtue-signalling. I leader politici e intellettuali direbbero e farebbero di tutto per segnalare che sono “buoni”.

Ma ogni tanto il sistema fa cortocircuito: non si può essere per il friendshoring e per la lotta al cambiamento climatico nello stesso tempo, un po’ come non si può essere per l’apertura delle frontiere e nello stesso tempo volere mercati del lavoro più rigidi.

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