Abbiamo parlato con Edoardo Gagliardi del suo libro “No go zone. Quello che non vi dicono sull’immigrazione di massa” (2022, Byoblu Edizioni), una indagine a 360 gradi sul fenomeno dell’immigrazione di massa.
Nato a Lanciano nel 1980, laureato in filosofia e scienze filosofiche all’Università di Perugia e Chieti-Pescara, Ph.D. in Philosophy all’Università Cattolica Giovanni Paolo II di Lublino, Gagliardi è giornalista e conduttore televisivo presso Byoblu dal gennaio 2020, ideatore del canale di filosofia, metapolitica e critica culturale Metapolitics su Youtube e Byoblu e direttore della rivista culturale di filosofia e psicoanalisi La Nuova Decade. Sul tema ha già pubblicato “The Great Invasion. Storia dell’anti-immigrazionismo negli Usa, 1882-1965” (Roma, Maniero del Mirto, 2020).
UMBERTO CAMILLO IACOVIELLO: Il suo libro si apre con i vari tipi di “anti-immigrazionismo” (religioso-spirituale, civico culturale, legalista, razzialista, anti-capitalista, realista). Qual è, dal suo punto di vista, l’approccio contrario all’immigrazione con più punti deboli?
EDOARDO GAGLIARDI: In primo luogo credo sia necessario capire che cosa si intende con “punti deboli”, perché quasi tutte le posizioni anti-immigrazioniste analizzate nel libro hanno dei punti deboli. Dico “quasi”, perché ritengo personalmente che l’approccio “realista” sia quello più indicato per affrontare il complesso tema dell’immigrazione di massa in Italia e in Europa.
Tornando alla domanda, direi che la posizione anti-immigrazionista con più punti deboli sia proprio quella più diffusa, ovvero quella “legalista”. Questa dice in sostanza che, se gli immigrati lavorano, pagano le tasse e si integrano hanno tutto il diritto di essere accolti.
Fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire, se non fosse che, come dimostro nel libro, i dati forniscono un’altra fotografia della realtà. Una grande parte di immigrati, soprattutto quelli provenienti dall’Africa, è disoccupata, anche alcuni anni dopo essere arrivata in Europa.
Nel 2014, secondo i dati Eurostat, un immigrato su cinque era disoccupato. Per non parlare poi della massiccia presenza di immigrati tra i detenuti delle carceri italiane, il 33,8 per cento del totale nel 2016. Per questo dico che l’approccio “legalista” si regge su delle premesse errate, nel senso che non hanno nessuna attinenza con la realtà effettiva del fenomeno immigrazione.
La mancanza di una cultura forte
UCI: Eppure continuano a ripeterci che dobbiamo accogliere immigrati perché loro fanno i “lavori che gli italiani non vogliono più fare”. Perché l’assimilazione su vasta scala di immigrati provenienti da altri continenti con culture profondamente diverse dalla nostra, è impossibile?
EG: Più che impossibile direi difficile. Sembrerà strano, ma uno degli ostacoli maggiori all’assimilazione di persone provenienti da altre culture e tradizioni è proprio la mancanza di una vera cultura in Europa. Si guarda infatti solo un lato della questione, ovvero gli immigrati che arrivano si dovrebbero assimilare. Ma la domanda è, oggi l’Europa offre una Cultura (con la C maiuscola) a cui eventualmente un immigrato si possa assimilare?
Da questo punto di vista credo che l’Europa e, nel nostro caso l’Italia, siano molto carenti. Accade che giovani stranieri, immigrati di seconda o terza generazione si gettino nelle braccia di ideologie politico-religiose estremiste. Si avvicinano all’estremismo spesso navigando in rete. Questo non mi stupisce.
A mio modo di vedere la ragione di questo comportamento va ricercata nell’impossibilità per l’immigrato di trovare dei valori forti che possano identificarlo con il luogo in cui si trova da ospite.
Se l’Europa pensa di poter assimilare o integrare offrendo consumismo, materialismo e individualismo esasperato, si sbaglia di grosso. Se non si opera un’inversione di tendenza valoriale, con l’immigrazione di massa l’Europa segnerà il suo declino irreversibile.
Accordi inutili?
UCI: Nel suo libro scrive che gli Stati europei si illudono quando pensano di poter stringere accordi con le autorità locali dei Paesi di origine dell’immigrazione di massa. Perché?
EG: Rimango convinto che uno dei problemi legati al controllo dell’immigrazione di massa sia da individuare nei Paesi di provenienza. Come spiego nel libro, questi con una mano stringono accordi di cooperazione con l’Europa, per esempio i Paesi africani, mentre con l’altra fanno poco o nulla per controllare i flussi migratori.
Nel peggiore dei casi non è da escludere che pezzi dell’amministrazione statale possano essere coinvolti nei traffici criminali di esseri umani. Non mi stupirei, visto l’alto livello di corruzione di certe aree del mondo.
Continuare quindi, come fanno tanti governi europei, a siglare accordi con i Paesi del Terzo Mondo per tentare di fermare l’immigrazione di massa è inutile e controproducente.
Non dimenticherei inoltre un altro fatto che può sembrare un paradosso: oggi, in termini di sicurezza, si vive meglio in molti Paesi africani che in tante città europee. Perché? La risposta è semplice. L’emigrazione implica un drenaggio della popolazione, soprattutto quella in surplus, economicamente svantaggiata e penalmente problematica. Provocatoriamente, perché i Paesi di provenienza dovrebbero trattenere popolazione che è, in molti casi, solo un peso o un problema?
Il caso del Giappone
UCI: Nel suo libro scrive che del Giappone “non si deve parlare”. Perché questo Paese non piace agli apologeti dall’immigrazionismo?
EG: Il Giappone è un tema scomodo per gli apologeti dell’immigrazionismo perché, con la sua storia e le sue politiche, dimostra che è possibile diventare una potenza mondiale pur non importando milioni di immigrati. Questo è un affronto per la vulgata pro-immigrazione, perché si vuole far credere che senza immigrati un Paese è destinato a scomparire.
Il Giappone vanta delle politiche tra le più restrittive sull’immigrazione e, quando l’Europa accoglieva milioni di profughi siriani o afghani, in Giappone se ne trovavano pochissimi. Mi sembra che nessuno abbia accusato i nipponici di essere razzisti o, peggio, eredi del nazismo.
Mi sembra importante ricordare che il Giappone ha fatto dell’isolazionismo positivo e del controllo dei propri confini una caratteristica peculiare della sua storia. Il periodo Edo (o Togukawa) è durato dal 1603 al 1868. In oltre 250 anni il Giappone non ha avuto contatti con gli stranieri, se non limitati ad un unico porto in tutta la nazione, quello di Nagasaki, e anche qui chi arrivava poteva muoversi solo in un’area delimitata della città.
Ebbene, il periodo Edo è coinciso con una fioritura culturale mai vista prima in Giappone e non solo. Questo a dispetto di chi vuole far passare l’idea che solo il multiculturalismo forzato produce sviluppo economico e culturale.
Il declino demografico
UCI: Seppur per motivi storici diversi, dalla Francia alla Svezia, in tutta l’Europa occidentale stiamo pagando il prezzo dell’accoglienza indiscriminata che, sommata al declino demografico degli europei, porterà nel medio-lungo periodo alla scomparsa degli autoctoni. Ci siamo recentemente occupati della catastrofica situazione demografica italiana: in Italia le donne senza cittadinanza italiana fanno mediamente più figli (1,87) delle donne italiane (1,17), anche chiudendo le frontiere, nel medio-lungo periodo siamo ugualmente condannati?
EG: Non credo che la sola chiusura delle frontiere possa invertire il declino demografico in Italia. Anche se gli immigrati nel nostro Paese fanno tendenzialmente più figli, ne fanno comunque meno, in media, dei loro connazionali che rimangono a casa. Questo significa che il declino demografico è una tendenza che caratterizza l’intero mondo occidentale, Europa in primis.
E a poco servono anche gli incentivi economici. Se bastasse avere denaro per fare figli, allora la Scandinavia dovrebbe avere una popolazione molto maggiore, e invece non è così. Il declino demografico europeo è un fatto culturale più che meramente economico.
Onestamente non sono ossessionato dalla crescita a tutti i costi. Se l’Italia, ad esempio, avesse metà della popolazione che ha oggi, forse per tanti aspetti si vivrebbe meglio. Il problema non è decrescere demograficamente, ma farlo in maniera intelligente e consapevole.
Mi pare chiaro che se non si fanno più figli l’Italia sarà certamente un Paese con meno popolazione ma per la gran parte anziana. Per la sopravvivenza di una nazione è fondamentale che ci siano soprattutto i giovani e non semplicemente decine e decine di milioni di abitanti.