Un mezzo premierato, occasione sprecata e un’altra resa a Mattarella

Premier eletto ma poco potere e non insostituibile. Errore abbandonare il presidenzialismo: il Quirinale la vera roccaforte di potere della sinistra da espugnare

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Più volte siamo tornati sull’argomento nei mesi scorsi, su Atlantico Quotidiano, per sottolineare l’errore, da parte della maggioranza di governo, di abbandonare il presidenzialismo a favore di una forma ibrida di premierato.

Cosa prevede la riforma

Il disegno di legge presentato ieri in Consiglio dei ministri introduce in realtà un falso premierato, diciamo un mezzo premierato, perché alla forza dell’investitura elettorale diretta del premier non corrispondono né la garanzia di non poter essere sostituito nel corso della legislatura, né i poteri minimi che dovrebbero derivare da una tale legittimazione popolare.

Per esempio, si introduce l’anomalia di un presidente del Consiglio il cui nome è sulla scheda elettorale, il che non avviene nemmeno nell’unico premierato esistente, ovvero quello britannico, ma che non può nemmeno disporre della sua squadra di governo: i ministri infatti continueranno ad essere nominati dal presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio eletto, il quale non avrà nemmeno il potere di licenziarli e sostituirli.

La norma anti-ribaltone

Ma nel premierato alla Meloni la figura del presidente eletto ha un altro punto debole: la mancanza dell’unica e definitiva garanzia anti-ribaltone. La riforma prevede infatti l’automatico ritorno alle urne solo nel caso in cui il governo formato dal premier eletto non riesca a ottenere dalle Camere nemmeno la prima fiducia, il che francamente ci pare una ipotesi molto remota, mentre nel caso di dimissioni o sfiducia a legislatura in corso, il premier eletto potrà essere sostituito da un parlamentare della stessa maggioranza, sebbene “per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”.

Insomma, dopo aver eletto un premier il cui nome e cognome hanno trovato sulla scheda, gli elettori potrebbero veder arrivare un altro tizio al suo posto a Palazzo Chigi, senza un nuovo passaggio elettorale. Solo nel caso di dimissioni o sfiducia anche del premier subentrante, allora il presidente della Repubblica “procede allo scioglimento delle Camere”.

Secondo premier più forte

Qui il paradosso: l’eventuale premier subentrante risulta politicamente più forte dello stesso premier eletto, perché solo la sua caduta porta direttamente al voto anticipato, non quella del premier eletto.

Dunque, il premier che per la prima volta nella storia della Repubblica, e unico caso nelle democrazie avanzate, verrebbe eletto direttamente dai cittadini: (1) dovrà comunque essere incaricato dal presidente della Repubblica; (2) dovrà comunque ricevere la fiducia delle Camere; (3) non potrà comunque nominare e licenziare i suoi ministri; (4) potrà essere sostituito nel corso della stessa legislatura.

È solo l’eventuale secondo premier della legislatura, quello non eletto direttamente, ad essere insostituibile. E, al limite, potrà essere appoggiato da una maggioranza diversa. Nel testo infatti non c’è alcun vincolo sui gruppi parlamentari e le forze politiche che dovrebbero sostenerlo, ma solo sul programma di governo, che è chiaramente il campo della pura discrezionalità politica. Per esempio, se nel programma di governo ci fosse il presidenzialismo, non potrebbe chiedere la fiducia sul premierato, ma certo nulla gli vieterebbe di presentare un disegno di legge in tal senso adducendo una qualsiasi giustificazione di contesto.

Resa al Quirinale

E allora, questo testo limita, ma non azzera la possibilità di ribaltoni e rischia di incentivare la rivalità tra i leader dei partiti della maggioranza per il ruolo di secondo premier. Ma se lo leggete in filigrana, non è altro che il frutto di un delicatissimo esercizio di funambolismo costituzionale volto a evitare il più possibile di intaccare le prerogative del presidente della Repubblica.

Vero, la norma anti-ribaltone circoscrive, delimita il suo potere di incarico, escludendo tecnici non eletti e riducendo sensibilmente gli spazi di manovra del Quirinale nella gestione delle crisi di governo: in prima battuta è obbligato ad incaricare il premier eletto, in seconda battuta un parlamentare “candidato in collegamento con il presidente eletto”. Ma il resto dei poteri “di sistema”, come vedremo, restano intatti e, soprattutto, cade la minaccia dell’elezione a suffragio universale diretto del capo dello Stato.

L’unica cosa che spaventa davvero la sinistra è perdere la sua golden share sulla presidenza della Repubblica, l’unico, e più pesante, centro di potere del nostro sistema che la sinistra può più facilmente occupare, come dimostrano gli ultimi trent’anni, senza dover vincere elezioni. Ed è quella la roccaforte da cui si possono controllare le leve del sistema profondo.

Pensiamo alla presidenza del Csm e alla nomina di un terzo dei giudici della Corte costituzionale – da cui a cascata si trasferisce l’orientamento progressista che pervade la nostra giurisdizione – ma anche ai poteri di firma e di esternazione, all’influenza sulle alte burocrazie e al gioco di sponda con le altre capitali europee.

Stupisce che un governo di centrodestra, con le resistenze e i vincoli impliciti che incontra, per esempio nelle politiche migratorie e di sicurezza, possa ancora sottovalutare il potere di blocco sistemico che può essere esercitato dal Quirinale. Ecco perché era importante il presidenzialismo. Non conta solo non subire ribaltoni, ma anche, quando si governa, non trovare nel Quirinale un contropotere non eletto.

È qui che questo testo di riforma odora di paura e debolezza da tutti i pori. Paura di andare allo scontro con il presidente della Repubblica, riconoscendogli così un implicito potere di veto – e senza alcuno sforzo di doverlo manifestare pubblicamente. Un totale cedimento, cui abbiamo già assistito sulla Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid.

Come sempre il presidente Mattarella e il suo partito giocano di squadra. Prima il Quirinale ha fatto capire al governo Meloni che sarebbe andato allo scontro con una riforma presidenzialista, costringendolo a virare fin da subito sul premierato. Ora, scampato il pericolo più grande, a finire il lavoro ci penserà l’indomita opposizione del Pd e del Movimento 5 Stelle, e delle loro legioni di costituzionalisti, che grideranno comunque all’attentato sia alla “centralità” del Parlamento che alle prerogative della presidenza della Repubblica.

Verso il referendum

Dal punto di vista politico, l’abbandono del presidenzialismo, che era nel programma di governo del centrodestra, a favore del premierato, sarebbe apparso giustificabile se avesse almeno permesso di raggiungere un ampio consenso parlamentare, tale da evitare che la riforma fosse sottoposta a referendum. Ma non ci pare questo il caso.

Un altro paradosso: una riforma che si pone come obiettivo di garantire il rispetto della volontà popolare uscita dalle urne, nasce dal tradimento di uno dei punti qualificanti del programma premiato dagli elettori il 25 settembre 2022. Il rischio, ora, è di ulteriori annacquamenti, ma a questo punto nulla, a nostro avviso, risparmierà alla riforma un referendum confermativo.

La riforma rischia di non ottenere il sostegno nemmeno di Italia Viva, il cui leader Matteo Renzi è il più entusiasta sostenitore del modello “sindaco d’Italia”. Come ha osservato Stefano Ceccanti, infatti, “il testo non è neanche affatto corrispondente allo schema semplice di premierato elettivo previsto per i Comuni, il cosiddetto sindaco d’Italia, basato sul simul stabunt simul cadent tra premier e assemblea: qui al premier eletto non basta l’elezione ma deve poi riprendere la fiducia con l’intero governo; può essere sostituito da qualcuno che è stato eletto dentro la stessa maggioranza, ma tranne il richiamo etereo alla continuità di programma, il secondo premier può in realtà costruirsi una maggioranza come vuole”. “Il progetto – conclude Ceccanti – dovrebbe quindi essere rifiutato, a logica, anche dai sostenitori del sindaco d’Italia“.

Ora, come noto gli elettori non si appassionano alla riforma costituzionale, sebbene da essa dipenda la possibilità di cambiare in profondità il Paese, presi comprensibilmente da problemi come l’inflazione, il lavoro, le tasse – insomma da come “arrivare alla fine del mese”. La norma anti-ribaltone potrà rappresentare un fattore di richiamo e mobilitazione, ma mai come il cambio di paradigma che avrebbe rappresentato il presidenzialismo e la boccata d’aria fresca di una elezione diretta del presidente della Repubblica.

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