Una generazione che cresce nella negazione della negatività

L’inevitabile differenza tra le aspettative (“non ci sono limiti a ciò che possiamo fare e diventare”) e l’effettiva capacità di darvi corpo genera frustrazione

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Giulia Cecchettin filippo Turetta

La tragica storia di Giulia, del suo efferato omicidio, ha generato un enorme (e doveroso) dibattito pubblico sul tema delle tante – e drammaticamente troppe – donne vittime di femminicidio in Italia. Dal ritrovamento del cadavere, è Elena Cecchettin – sorella di Giulia – a dettare l’agenda mediatica e politica: prima con un post su Instagram, poi rivolgendosi alla stampa, Elena attacca la “cultura patriarcale”, punta il dito sulla “responsabilità collettiva” della società.

Tesi contrapposte

Si scatena di conseguenza una dinamica polarizzante che pervade l’intera discussione, dalla carta stampata alla tv, riassumibile nella definizione di due tesi contrapposte. Da un lato si nega qualsiasi responsabilità collettiva, ricordando che l’art. 27 della Costituzione sancisce che la responsabilità penale è personale. In tale ottica Filippo Turetta è semplicemente un criminale, uno che ammazza a sangue freddo e poi scappa: un mostro.

Dall’alto lato invece si cerca di scoprire quali dinamiche sociali si celino dietro il delitto, quali rapporti di forza, e di potere. In questo campo le argomentazioni sono molte: permanenza della “cultura patriarcale”, carenza di educazione sentimentale nelle agenzie di socializzazione primarie (scuola, famiglia), inadeguata sensibilizzazione ai temi della parità di genere.

Non mancano voci dissonanti rispetto al semplice e puro quadro binario. Il Prefetto di Padova ridimensiona il fenomeno dei femminicidi, sottolineando che le uccisioni di donne non hanno tutte come movente principale quello legato al genere: non rientrerebbe nella categoria femminicidio l’uccisione, ad esempio, di una donna anziana da parte del nipote che uccide perché aspira ad ottenerne l’eredità.

Backlash culturale

Interessante è anche la visione del sociologo Luca Ricolfi: richiamandosi alla teoria del cultural backlash (Norris e Inglehart, 2019), per il professore Ricolfi l’alto tasso di femminicidi in Paesi nei quali le donne hanno raggiunto, se non superato, lo status socioeconomico degli uomini, sarebbe una forma di revanchismo, latente e non manifesta, con il quale il genere maschile risponderebbe alla potente e progressiva ondata di empowerment femminile. Nelle società in cui le donne hanno sempre più diritti, gli uomini non sarebbero del tutto disposti a perdere il loro primato lavorativo, economico, culturale.

La negazione della negatività

Vorrei proporre in questo spazio, una visione alternativa della vicenda. Si parta da alcuni dati emersi dalle attività di indagine. Filippo non aveva metabolizzato la separazione da Giulia; ripeteva ai familiari di non riuscire, e di non volere vivere senza Giulia; Giulia era a conoscenza della fragilità del ragazzo – ne sono prova i tentativi di mantenere i contatti con Filippo.

Ma qualcosa era cambiato: il rifiuto di Giulia non era stato accettato. La non accettazione del rifiuto, della negazione: sta qui la mia chiave di lettura dell’efferato omicidio. Filippo era un ragazzo come gli altri: prima del fatto non aveva riportato tratti “devianti” o perversi. Quindi Filippo si trasforma in criminale e mostro quando è posto di fronte alla negazione dell’altro.

L’esperienza della negazione ha un effetto dirompente nella misura in cui nella società attuale tale esperienza diventa sempre più rara: tutto è tarato in positivo, verso la convergenza, l’uguaglianza, l’uniformità, mentre diminuiscono sensibilmente le forme del negativo: lo scontro, la rottura, la divisione.

La generazione che cresce nella negazione della negatività è più fragile di quelle precedenti: vive di soli diritti, ma non conosce doveri. La negazione della negatività crea un’atmosfera rarefatta nella quale si cerca di appiattire le disuguaglianze fornendo piattaforme di egalitarismo virtuale: i social networks operano nel senso di questa orizzontalità.

Nel mondo che viviamo l’idea che “non ci sono limiti a ciò che possiamo fare e diventare” potrebbe avere un risvolto oscuro: la differenza tra le aspettative (oramai illimitate per chiunque) e l’effettiva capacità di darvi corpo genera una frustrazione, che cresce all’aumentare della narrazione delle possibilità illimitate.

La stessa frustrazione che potrebbe aver generato il gesto criminale di un giovane cresciuto in una cultura che anestetizza le forme della negatività e del dolore amplificando la retorica del dirittismo e della positività, laddove invece la tragicità, il dolore e la sofferenza fanno parte della storia dell’uomo, e anzi dai grandi dolori collettivi (si pensi all’esperienza delle guerre) l’umanità ha sempre aumentato la propria resilienza, progredendo verso stadi di maggiore libertà, benessere e giustizia.

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