Ho viaggiato quel tanto giusto per poter far ruotare il mio mappamondo senza sbagliare dove puntare il dito per ritrovare paesi e paesaggi visitati, ma quel che mi viene da dire è di essere stato riconosciuto come italiano ancor prima di aprire bocca: insomma un tipo con l’aspetto, l’abbigliamento, il comportamento di uno che veniva di là, dallo stivale proiettato a mezzo del Mediterraneo.
Riconosciuti all’estero
Se ne chiedevo il perché, ricevevo un responso vago, dove l’interlocutore si traeva d’impaccio, chiamando in causa una specie di sesto senso, maturato con l’esperienza, insomma si direbbe a fiuto; questo ancor prima che io aprissi la bocca, facendomi riconoscere già dall’intonazione emiliana con cui biascicavo il mio inglese, per non parlare della presentazione con tanto di nome dall’origine doc quale Franco. Non ne rimanevo affatto sorpreso, perché lo stesso succedeva a me di fronte ad uno che si rivelasse essere proprio di quel paese in cui l’avevo istintivamente collocato, fino al punto di cavarmela d’impaccio pure nel distinguere d’acchito un cinese da un giapponese.
Ne rimanevo piacevolmente sorpreso, perché non avevo fatto nulla di quel che ci viene normalmente imputato quando siamo all’estero, strillare da un capo all’altro della strada, parlare a voce grossa, intralciare il traffico pedonale muovendoci in gruppi compatti, non rispettare le file; niente di niente, ma c’era ben altro, perché quando quell’interlocutore del momento mi puntava il dito dandomi dell’italiano, notavo come ci fosse in quella parola, pronunciata in una dizione affaticata, una cordialità festosa nei confronti di quel mio paese che uno straniero si ripromette di visitare una volta o l’altra.
Mi ero troppo abituato, come credo ogni connazionale all’essere il paese che è stato culla del dominio romano e del rinascimento, contenitore di una buona metà del patrimonio artistico mondiale, ricco di bellezze naturali, conoscitore dell’arte del vivere bene, sì da non cogliere subito il rispetto che lui pagava alla mia terra d’origine, ma poche battute ricche di riferimenti ai grandi che avevano illustrato la nostra storia, me lo rivelavano presto, rendendomi fiero.
Un italiano vero
Già la stessa parola della famosa canzone di Totò Cotugno, che bisogna sentirla cantare all’estero nei club italiani, per capirne l’intera capacità pervasiva, quasi una versione corrente dell’inno nazionale, che esprime la fierezza di una appartenenza all’Italia; una canzone rilanciata dalla morte dell’autore, ma che per una misteriosa coincidenza tornata attuale nel mezzo di una polemica relativa a che cosa significa italiano.
In una furia iconoclasta della sinistra saputa che ha fatto e fa di ogni caratteristica identitaria una connotazione contraria ad una uguaglianza assoluta che dovrebbe appianare ogni diversità, di cui peraltro celebra ossessivamente la ricchezza per giustificare una immigrazione senza fondo.
Ora nessun dubbio che chi ottiene la cittadinanza è italiano nel senso burocratico del termine, ma si può dire vero italiano? No, ci vuole qualcosa d’altro, ci vuole una appartenenza istintiva e sentimentale con quell’Italia di cui viene salutato il risveglio nel modo in cui ci si aspetta che lo faccia un nostro connazionale, accompagnandosi con la chitarra in mano.
E nella prima strofa due fatti altamente evocativi nella loro stessa diversa rilevanza, un piatto nazionale per antonomasia come gli spaghetti e un presidente partigiano come Pertini: cucina e storia. Seguono note che costruiscono un vero e proprio identikit dell’italiano dei nostri film di quegli anni, rappresentato con poche pennellate da macchiaiolo nel rituale del risveglio domenicale, il dopo barba alla menta, il vestito gessato blu, il caffè ristretto, la moviola pomeridiana, con una identità collettiva data dall’identificazione in una bandiera e una identità individuale segnata dalla proprietà di una seicento, entrambe bisognose di cure, una rinfrescata in tintoria per la prima ed una riparazione in carrozzeria per la seconda.
Nessuna rivendica di alcuna primazia, ma solo l’affermazione di una presenza pur rappresentata nella modestia della quotidianità, con una vistosa differenza rispetto al roboante tono celebrativo dell’inno nazionale, ci sono e sono fiero di esservi, cosa di cui lo stesso Dio deve rendersi conto, facendovi spazio.
Una identità italiana
Che esista una identità italiana è questione tutt’altro che pacifica, come testimonia un libro collettaneo dato alle stampe da Einaudi con un titolo già di sé per significativo del contenuto, “Contro una identità italiana”. Nulla da dire su quella che sembra essere una conclusione da trarne, cioè che l’identità italiana non sarebbe un dato naturale o antropologico, ma un fatto storico passibile di trasformarsi col tempo, ma detto questo rimane pur sempre da identificarla rispetto alla storia, che per quel che ci riguarda spazia su almeno 3 mila anni, necessari per sfatare la cinica conclusione di Metternich per cui l’Italia sarebbe stata una mera espressione geografica.
Si può giostrare fin che si vuole con le parole razza, etnia, nazione, patria, ma alla fine è la “cultura” che un italiano assorbe fin da piccolo, a cominciare da una lingua squillante che si apprende dalle labbra materne, non senza intonazioni locali ed espressioni dialettali, una religione rimasta infantile ma dalla ritualità condivisa, una dimestichezza con le varie epoche storiche fisicamente impresse nelle rovine antiche, nelle chiese, nei palazzi, nella struttura stesse delle città e dei mille borghi, negli stili di vita e, perché no, nei campanilismi e nei piatti regionali, nelle meraviglie naturali diffuse lungo l’intero stivale, nei cognomi scritti sulle lapidi dei cimiteri.
No, non è una razza che si distingua in base al genoma, ma è una etnia, è una consolidata aggregazione culturale, che ha coltivato per secoli la speranza di divenire nazione, cioè padrona della terra in cui era maturata, quella stessa dei padri, una eredità gelosamente conservata da una generazione all’altra.
No, la cittadinanza non basta
Non basta acquistare la cittadinanza in età adulta per essere un italiano vero, perché questa è una qualità che si acquista con una vita vissuta nel bel Paese, con una appartenenza interiore che nessuna formazione può dare, dopo di che nessuna condizione privilegiata, casomai tutt’altro una responsabilità particolare per la sopravvivenza di questa cultura che rappresenta una autentica ricchezza per l’intera umanità.
Non è una razza, non discrimina in ragione del colore e dell’aspetto del viso, se non nel senso che si è formata nell’area occupata dal c.d. uomo bianco, che ha giocato nel bene e nel male un ruolo fondamentale nella civilizzazione mondiale, una caratterizzazione storica che però ha richiesto migliaia di anni, sì da non poter essere trasmessa ai nuovi arrivati se non nel succedersi di più generazioni.
Denatalità
A meno che non la si consideri una sorta di mala pianta da estirpare, contando sulla stessa crisi della natalità, classica forma di suicidio delle etnie, considerando miracolosa una integrazione che dovrebbe trasformare in un tempo relativamente breve giovani immigrati maschi cresciuti in una cultura completamente contrapposta alla nostra in italiani veri.
Direte, che importa? Ma una volta spariti gli italiani veri sulla base di quella rivoluzione etnica – in cui una cultura viene completamente sostituita da una altra – che ha caratterizzato l’intesa storia dell’espansione europea, allora non ci sarà più una etnia italiana cui doversi integrare.