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Una riforma che non riforma: ecco cosa non va nel premierato alla Meloni

Non cambia la forma di governo: premierato nelle urne ma non nei poteri. Un fragile compromesso tra il vorrei (presidenzialismo) e il non posso (paletti del Colle)

Meloni Mattarella riforma premier © Leonid Andronov tramite Canva.com

Venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge costituzionale per l’introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri e la razionalizzazione del rapporto di fiducia.

La riforma costituzionale, secondo il governo, ha l’obiettivo di rafforzare la stabilità dei governi, consentendo l’attuazione di indirizzi politici di medio-lungo periodo; consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della nazione; favorire la coesione degli schieramenti elettorali; evitare il transfughismo e il trasformismo parlamentare.

Nessun vantaggio politico

Per ragioni espositive, rinviamo alle critiche generali già espresse ripetutamente su questo quotidiano sulla scelta politica di non perseguire quanto dichiarato in sede di programma elettorale (elezione diretta del presidente della Repubblica) in luogo dell’elezione diretta del presidente del Consiglio per dei supposti vantaggi politici (maggioranza più larga ed evitare rischio referendario) già svaniti, come peraltro ampiamente previsto e predetto. Rinviamo altresì al commento generale del direttore dello scorso sabato.

Non cambia la forma di governo

Nel merito dell’analisi del testo, innanzitutto, possiamo senza dubbio affermare che siamo di fronte alla classica storia della montagna che partorisce il topolino: un anno di consultazioni con tutte le forze politiche e sociali e di approfondimenti specifici nell’apposito dicastero per deliberare una riforma della forma di governo che non riforma la forma di governo.

Infatti, il primo elemento a che va evidenziato è che la forma di governo proposta dal governo è comunque una forma di governo parlamentare, posto che il governo deve necessariamente godere della fiducia delle Camere.

Addio ai senatori a vita

Ma procediamo con ordine. L’articolo 1 del ddl costituzionale prevede l’abolizione dei senatori a vita. Nulla da obiettare al riguardo (così anche sull’art 5 del ddl che detta disposizioni transitorie). Siamo favorevoli all’abolizione di questo istituto, anche alla luce del suo impiego strumentale a precisi obiettivi politici, come nel noto caso della nomina del senatore a vita di Mario Monti.

Tuttalpiù può osservarsi che tale abolizione non concerne la forma di governo e avrebbe potuto essere prevista in un diverso ed esclusivo ddl costituzionale. Ma come nel caso dell’abolizione del Cnel della riforma di Renzi, si può osservare la cattiva prassi di inserire riforme marginali unanimemente condivise in riforme più articolate e complesse, forse con lo scopo che facciano da traino in un’eventuale consultazione referendaria.

Preferiremmo una diversa prassi che consenta di avere la certezza di realizzare alcune riforme ampiamente condivise, e tutto sommato marginali, come appunto ieri l’abolizione del Cnel e oggi quella dei senatori a vita, senza che queste debbano condividere la sorte delle riforme complessive nelle quali sono collocate.

L’art. 2 invece abolisce la facoltà di scioglimento di una sola Camera. Una revisione condivisibile, ma sostanzialmente inutile visto che tale facoltà non è mai stata concretamente utilizzata ed è probabilmente frutto dell’originaria differenza temporale di durata delle due Camere.

Poteri del premier

Gli articoli 3 e 4 contengono il cuore della riforma. L’art. 3 sostituisce l’articolo 92 della Costituzione prevedendo che:

Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri.

Sono possibili molte osservazioni. Ci limitiamo, almeno per ora, a due profili. In primo luogo, la riforma introduce una differenziazione qualitativa tra i componenti del governo cui non sembra però corrispondere una analoga differenziazione funzionale. In particolare, il presidente del Consiglio eletto non dovrebbe più essere ritenuto primus inter pares, come peraltro sembra evidenziare la formula che prevede il conferimento, e non più l’attuale nomina, dell’incarico di formare il governo al presidente eletto e la nomina dei ministri.

Inoltre solo la sua durata, cinque anni, è fissata in Costituzione. Eppure la riforma non modifica l’art. 95 Cost. e dunque l’articolazione dei poteri dei diversi organi del governo, con particolare riferimento alla responsabilità individuale dei ministri per gli atti di competenza dei loro ministeri e il potere generale di direzione e coordinamento del presidente del Consiglio.

In altri termini, la radicale modifica dell’elezione diretta del presidente del Consiglio non sembra mutarne le funzioni previste dall’attuale quadro costituzionale. Ad esempio, non è presente il potere di nomina e revoca dei ministri da parte del presidente del Consiglio eletto e nemmeno quello di una sua prevalenza funzionale sui ministri. Saremmo dunque sostanzialmente in presenza di un presidente del Consiglio quasi primus inter pares.

L’illusione della legge elettorale

La seconda osservazione riguarda il riferimento alla legge elettorale e al premio del 55 per cento. Qui a noi pare che siamo in presenza dell’errore metodologico perseguito da almeno trent’anni e cioè dell’erronea presunzione di imporre la stabilità degli esecutivi e il bipolarismo con la legislazione elettorale e non con riforme sistematiche della forma di governo, come questa non è, potendo tuttalpiù essere qualificata come un tentativo di miglioramento dell’attuale.

Ormai dovrebbe essere chiaro che le alchimie elettorali non producono effetti strutturali qualora non siano inquadrate in un contesto più ampio e cioè di una revisione radicale della forma di governo, come dimostra l’attuale scenario politico, ancora molto frammentato, e l’instabilità politica degli esecutivi di questi ultimi decenni che forse hanno avuto una maggiore longevità temporale ma che difficilmente indicheremmo come esempi di stabilità.

Anzi talvolta abbiamo conosciuto il problema di governi che si ostinavano a durare malgrado fossero politicamente esauriti da tempo, come, ad esempio, il secondo governo Conte che ha sfruttato politicamente al massimo la pandemia per restare in carica.

Inoltre, sembra ripresentarsi il meccanismo del rinvio a ulteriore provvedimento normativo che ormai è una costante di ogni tipo di riforma, al fine di conseguire mediaticamente un immediato riscontro di consenso e rinviare ad un secondo tempo la definizione degli aspetti tecnici più delicati e complessi.

Infatti, nel caso in argomento non è chiaro come la legislazione elettorale ordinaria dovrebbe assegnare il premio del 55 per cento. E la questione non è di poco conto, trattandosi di problema sul quale la Corte costituzionale è già intervenuta con sue pronunce “demolitive” di meccanismi premiali eccessivamente sproporzionati.

Le maggioranze qualificate

Infine, occorre evidenziare che l’attribuzione del premio di maggioranza del 55 per cento alla lista vincente significa attribuire alla maggioranza politica la maggioranza per revisionare la Costituzione e per eleggere il presidente della Repubblica, ancorché le maggioranze previste facciano chiaramente riferimento all’originaria legislazione elettorale proporzionale e dunque presumano che le maggioranze parlamentari richieste corrispondano ad effettive maggioranze elettorali.

Chi scrive ha sempre sostenuto che la revisione della legislazione elettorale in senso premiale dovrebbe comportare la revisione di tutte le maggioranze qualificate previste in Costituzione per un loro adeguamento numerico alla nuova disciplina elettorale, onde evitare situazioni di squilibrio istituzionale.

Il premier subentrante

Il successivo articolo 4 del ddl di revisione costituzionale prevede che all’articolo 94 della Costituzione siano apportate le seguenti modifiche. Il terzo comma sostituito dal seguente:

Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.

Dopo l’ultimo comma è aggiunto il seguente:

In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.

Qui, forse, abbiamo gli elementi più problematici della riforma. Infatti, il procedimento di formazione del governo della lettera A è estremamente rigido e sembra definire in termini meramente notarili le funzioni del presidente della Repubblica, omettendo di considerare le problematicità che possono presentarsi dopo le elezioni politiche. Tale rigidità avrebbe avuto una sua ratio se si fosse introdotto un meccanismo analogo a quello della forma di governo regionale o comunale e cioè la regola del simul stabunt simul cadent.

Ma così non è, come prevede l’ipotesi disciplinata dalla lettera B di conferimento dell’incarico ad un presidente del Consiglio subentrante. Ma se ciò è possibile durante il corso della legislatura perché non può avvenire al suo avvio, ove vi sia un accordo delle forze politiche in tal senso? E davvero il presidente della Repubblica può essere obbligato a sciogliere le Camere nel caso in cui riscontri che la maggioranza elettorale possa esprimere la fiducia ad un presidente del Consiglio subentrante.

Non è difficile immaginare casi in cui ciò potrebbe avvenire. Si pensi, ad esempio, ad una coalizione di più soggetti politici che proponga come presidente del Consiglio il leader della forza politica maggiore, che dopo il voto risulti maggioritaria ma con un significativo riequilibrio di poteri tra i soggetti della coalizione, magari con ribaltamento di posizioni. La medesima maggioranza potrebbe dunque giungere ad accordare la fiducia ad un diverso leader, proprio in virtù del voto espresso.

Negare tale possibilità in una forma di governo comunque parlamentare suscita notevoli perplessità. Ciò induce a ritenere che tale meccanismo potrebbe produrre potenziali tensioni tra presidente del Consiglio eletto e presidente della Repubblica, le quali potrebbero anche sfociare in conflitti di attribuzione davanti la Corte costituzionale, con esiti facilmente immaginabili anche alla luce dei precedenti (ad oggi nessun conflitto di attribuzione ha visto soccombente il capo dello Stato).

Rischio riscrittura della Consulta

Se è consentita un’analogia un po’ forzata, potrebbe avvenire ciò che è successo con la riforma del Titolo V: cioè una riforma che aveva la finalità di aumentare l’autonomia regionale senza però scegliere chiaramente un modello federale e che nella sua sostanziale ambiguità tra centralismo e decentramento ha favorito la sua sostanziale riscrittura da parte della Corte costituzionale attenuando di molto il suo carattere autonomistico.

Immagiamo che qualcosa di analogo potrebbe accadere anche con un testo del genere, perché mantiene la forma di governo nell’ambito di quella parlamentare e non modifica formalmente i poteri del presidente della Repubblica, anche se vi incide significativamente. Ed è difficile immaginare che il presidente della Repubblica, inteso come ufficio, non difenda le sue prerogative per come si sono andate configurando in questi 75 anni di vita repubblicana.

Il potere di scioglimento

Non si può non concludere con riferimento al meccanismo della lettera B che, come già notato da diversi commentatori (anche su questo giornale), appare singolare prevedere che il presidente del Consiglio subentrante abbia paradossalmente un potere maggiore di quello eletto, disponendo sostanzialmente del potere di scioglimento delle Camere.

Fermo restando che anche in questo caso si possono riproporre i dubbi sulla impossibilità del presidente della Repubblica di conferire l’incarico ad un altro presidente del Consiglio subentrante qualora accerti questi abbia la fiducia della maggioranza parlamentare. Sarebbe davvero un bel caso di conflitto di attribuzione di spettanza del potere di scioglimento delle Camere che alla luce del testo costituzionale sarebbe da risolvere chiaramente in favore del capo dello Stato.

Rischio via crucis

In conclusione, la riforma costituzionale non convince affatto. Si ha l’impressione che i redattori abbiano dovuto mediare tra diverse esigenze tra loro incompatibili: immodificabilità del procedimento di elezione del presidente della Repubblica e dei suoi compiti; elezione diretta quindi del presidente del Consiglio, senza però potere modificare la forma di governo parlamentare che avrebbe comportato, per l’appunto, la modifica della disciplina del presidente della Repubblica.

Un puzzle di difficilissima composizione anche perché si tratta di un assoluto inedito. Mentre, infatti, la strada del presidenzialismo, anche nella sua forma più diffusa nel continente europeo (semipresidenzialismo), sarebbe stata di agevole percorrenza, poiché sarebbe stato sufficiente banalmente copiare quanto è stato già fatto dagli altri, l’impresa di configurare un originale e unico sistema di governo che coniughi l’elezione diretta del presidente del Consiglio con le prerogative di un presidente della Repubblica di una democrazia parlamentare rischia di somigliare alla quadratura del cerchio. Ci sbaglieremo, ma non può funzionare.

Speriamo soltanto che il governo rinsavisca e ritorni sulla via maestra della riforma della forma di governo in senso (semi)presidenziale perché, tra l’altro, avrebbe il notevole vantaggio di potere agevolmente respingere ogni attacco e critica perché è evidente che nessuno può formulare fondati motivi di critica nel merito rispetto a modelli costituzionali ampiamente collaudati e vigenti in molteplici ordinamenti europei.

Se invece continuerà sulla strada intrapresa del premierato, temiamo fortemente che la riforma sarà una lunghissima via crucis al cui termine, appunto, vi è il Golgota su cui potrebbe restare inchiodata l’esperienza di governo del presidente Meloni. E sarebbe davvero un peccato se finisse così.

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