Trump ha scelto di non reagire all’abbattimento del drone e alle ripetute aggressioni alle petroliere nel Golfo; si è mostrato pronto a incontrare Rohani “senza precondizioni”; ha licenziato chi lo aveva consigliato diversamente. Chi comanda davvero a Teheran ha percepito la sua debolezza e alzato il tiro. E ora la sfida è alla supremazia Usa
L’intelligence Usa è giunta alla conclusione che l’attacco di sabato scorso a due dei maggiori impianti petroliferi sauditi – che ha causato il dimezzamento della produzione giornaliera di Riad e un calo del 5 per cento di quella mondiale, con conseguente allarme sui mercati e aumento dei prezzi del greggio (10 per cento) – è stato lanciato dal territorio iraniano con una combinazione di missili e droni. Già poche ore dopo, in realtà, il segretario di Stato Mike Pompeo puntava il dito contro l’Iran, scrivendo su Twitter “non ci sono prove che l’attacco sia partito dallo Yemen”, come invece veniva rivendicato dai ribelli Houthi, appoggiati da Teheran.
Washington ha condiviso le sue informazioni con Riad e i due alleati stanno valutando azioni di ritorsione (“siamo pronti e carichi”, ha twittato Trump), ma i sauditi sono meno espliciti sul territorio d’origine dell’attacco: dalle loro indagini risulta che gli armamenti usati sono di fabbricazione iraniana e che non è partito dallo Yemen. Davvero non sono ancora certi della provenienza, oppure temono di non essere pronti a sostenerne le conseguenze? In ogni caso, ieri sera il segretario alla Difesa Mark Esper ha confermato che gli Stati Uniti “stanno lavorando con i loro partner per affrontare questo attacco senza precedenti all’ordine internazionale, che l’Iran sta minando”.
Essenziale, per inquadrare la crisi e valutarne le possibili conseguenze di lungo periodo, è comprendere la vera natura e portata dell’attacco, che va ben oltre la rivalità regionale tra Iran e Arabia Saudita e che sarebbe riduttivo, anzi fuorviante leggere nel contesto del conflitto per procura in corso tra i due nello Yemen. È un attacco senza precedenti all’approvvigionamento energetico mondiale e, come tale, all’ordine regionale e globale di cui gli Stati Uniti sono garanti. Dunque, un attacco diretto all’America, ai suoi interessi vitali e alla sua egemonia. I ripetuti tentativi dei ribelli Houthi di assumersene la paternità, su richiesta di Teheran, hanno il preciso intento di riportarlo sul piano di un conflitto locale e risparmiare così una dura rappresaglia al regime iraniano, che riuscirebbe a infliggere impunemente un duro colpo alla credibilità della deterrenza Usa.
La Repubblica islamica ha risposto al ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul suo programma nucleare, e alla strategia della “massima pressione” adottata dall’amministrazione Trump, cercando di portare l’Europa dalla sua parte, o almeno a non schierarsi (obiettivo centrato, a quanto pare), e decidendo di testare la risolutezza della Casa Bianca con una escalation militare nel Golfo persico prima di piegarsi, eventualmente, a rinegoziare l’accordo.
Negli ultimi mesi, con le ripetute aggressioni (attacchi e sequestri) alle petroliere di passaggio nello Stretto di Hormuz, davanti alle coste iraniane, e con l’abbattimento di un drone da ricognizione americano, Teheran ha messo alla prova la determinazione Usa a difendere la libertà e la sicurezza della navigazione nel Golfo, essenziale per gli scambi commerciali e quindi l’economia globale. Proprio la decisione del presidente Trump di annullare all’ultimo momento la rappresaglia militare che gli era stata consigliata (dall’allora consigliere per la sicurezza nazionale Bolton, ma non solo), perché giudicata sproporzionata la perdita di vite umane a fronte della perdita di un drone senza pilota, è stata probabilmente interpretata come un segnale di via libera all’escalation da Qassem Soleimani, il comandante della Quds Force, la divisione dei Pasdaran per le operazioni all’estero.
E non è certo una coincidenza che l’attacco agli impianti petroliferi sauditi sia arrivato proprio nel momento in cui il presidente Trump stava considerando di ammorbidire il suo approccio. Solo pochi giorni fa la conferma, da parte del segretario di stato Pompeo, della disponibilità del presidente a incontrare “senza precondizioni” il suo omologo iraniano Rohani a margine della prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite e l’allontanamento del “falco” Bolton – la cui uscita era obiettivo nemmeno troppo nascosto del regime iraniano e dei suoi sostenitori in Europa. Ma Trump ha persino preso in considerazione di sostenere l’idea del presidente francese Macron di versare agli ayatollah 15 miliardi di dollari in cambio di un loro cambio di atteggiamento nella regione. Una vera e propria tangente.
Tutti segnali interpretati correttamente a Teheran: debolezza. L’impressione che Trump avesse fretta di chiudere un deal per sbandierarlo nella campagna già iniziata per la rielezione li ha indotti a forzare la mano: piuttosto che rischiare un conflitto nell’anno elettorale, sarà lui a supplicarci di tornare al tavolo alleggerendo le sanzioni. E gli altri avversari dell’America, da Pyongyang a Pechino, fino a Mosca, passando per molte capitali europee, ovviamente sono alla finestra, pronti ad approfittare di una maggiore propensione al compromesso da parte della Casa Bianca, già evidente all’ultimo G7 di Biarritz.
Chiaro che per Trump farsi trascinare in nuove guerre, avendo promesso ai suoi elettori esattamente il contrario, cioè di uscirne, potrebbe avere un alto costo politico interno, ma d’altra parte abbassare lo sguardo di fronte alla sfida di Teheran avrebbe comunque dei contraccolpi sulla sua immagine di implacabile difensore dell’interesse nazionale Usa e di greatest dealmaker.
Paradossalmente, proprio non aver voluto finora rischiare alcuno scontro, ha creato i presupposti per doverne affrontare uno potenzialmente devastante. Domanda: non seguire i suggerimenti di Bolton (ma non solo suoi nell’amministrazione) ha ridotto o aumentato il rischio di un conflitto di vasta portata con l’Iran? È evidente infatti come la posta in gioco sia considerevolmente aumentata con l’attacco dello scorso weekend rispetto a quest’estate, quando si trattava di reagire all’abbattimento di un drone. Ora per difendere la propria credibilità, non solo agli occhi degli avversari ma anche degli alleati, gli Stati Uniti non se la possono cavare con un raid simbolico. Sarà più difficile calibrare una reazione sufficientemente forte da dissuadere Teheran dal proseguire con la sua escalation, ma non al punto da scatenare un conflitto su larga scala. Trump si trova davanti a un bivio molto insidioso: o reagisce ora, con tutti i rischi del caso, o può dire addio alla strategia della “massima pressione”, e insieme ad essa ai sogni di un deal migliore di quello di Obama con l’Iran, e aspettarsi attacchi, chissà dove, di livello ancora superiore.
Può venirgli in soccorso l’esempio di un suo illustre predecessore. Non è la prima volta infatti che il regime iraniano testa la risolutezza degli Stati Uniti nel difendere i loro interessi e l’ordine economico internazionale. Era il 1988, alla Casa Bianca c’era un tale Ronald Reagan, che il 18 aprile di quell’anno reagì ai tentativi iraniani di ostacolare la navigazione nel Golfo persico con l’operazione Praying Mantis (“Mantide Religiosa”): due piattaforme petrolifere iraniane distrutte e sei unità navali della marina iraniana affondate o danneggiate. Non sarebbe male nemmeno uno strike chirurgico diretto a decapitare i vertici dei Pasdaran, Soleimani in primis. Ma anche volendo evitare di colpire il territorio iraniano, l’intelligence Usa ha a disposizione le coordinate esatte delle basi e dei comandi iraniani nello Yemen e nell’intero Medio Oriente. È evidente però che la risposta dovrà essere militare e provocare un danno ingente, proporzionato a quello subito dai sauditi, non solo simbolico come sarebbe potuto essere reagendo all’abbattimento del drone quest’estate.
Se invece restasse impunito, oltre a chiamare il bluff di Trump nei suoi confronti, l’Iran dimostrerebbe di poter minacciare l’economia globale e che l’ordine americano si può sfidare apertamente. Gli avversari degli Stati Uniti si sentiranno incoraggiati a sfidare in modo ancora più aggressivo la loro supremazia militare, mentre gli alleati, sentendosi più insicuri, non potendo più contare sulla deterrenza Usa, cominceranno a cercare protezione altrove. Una nemesi per chi aveva America First come programma.
Un’altra conseguenza, anche se a questo punto secondaria, di una mancata risposta, sarebbe quella di esporre la debolezza dell’Arabia Saudita nel conflitto in Yemen. E anche se Riad non è tra gli alleati più presentabili, un regime Houthi a Sana’a, sul modello Hezbollah in Libano e Assad in Siria, sarebbe un’ulteriore arma nelle mani di Teheran per sovvertire a proprio vantaggio, contro Usa e Israele, l’ordine regionale.
Il presidente Trump, conclude un editoriale del board del Wall Street Journal, “potrebbe anche scusarsi con John Bolton, che ha ripetutamente avvertito che l’Iran avrebbe approfittato della debolezza percepita alla Casa Bianca. Gli eventi del fine settimana hanno dimostrato che l’ex consigliere era nel giusto. La campagna di pressione dell’amministrazione Trump ha funzionato e abbandonarla ora incoraggerebbe Teheran ad assumersi più rischi militari”.