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Autonomie regionali: un’opportunità da cogliere, insieme a una riforma costituzionale per un governo più stabile e autorevole

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Lega e M5S si scornano ormai su tutto, anche in merito ad argomenti non proprio cruciali ed urgenti per il destino dell’Italia. Se Salvini dice la propria su una cosa, su una qualsiasi cosa, Di Maio sente subito l’impellente necessità di contraddirlo, spesso in maniera netta. Alcuni commentatori sono dell’idea che fra Salvini e Di Maio sia in corso soltanto un gioco delle parti, e che in realtà i due si vogliano un bene dell’anima. Sarà, ma è certo che uno spettacolo siffatto non può proseguire a lungo, perché rischia di deludere gli italiani, già piuttosto stanchi di essere presi in giro da baruffe politiche inconcludenti. Questa deriva litigiosa è da imputare principalmente al Movimento 5 Stelle. Come si sa, il M5S ha avuto performance elettorali deludenti nelle amministrative in Abruzzo, Basilicata e Sardegna. Oltre a queste docce fredde, i sondaggi, fino a poco tempo fa, rilevavano un continuo declino elettorale del Movimento pentastellato e la costante crescita, invece, della Lega. Per reagire a questi cupi segnali, i grillini hanno ritenuto che la soluzione migliore fosse quella di bombardare l’alleato di governo con un po’ di fuoco amico. Le rilevazioni attuali certificano in effetti un sostanziale arresto del crollo elettorale pentastellato, ma la Lega è ancora abbondantemente avanti e il M5S rimane comunque lontano dal risultato delle elezioni politiche.

Europee ed amministrative incalzano, si capisce, ma vale la pena rischiare di mandare a gambe all’aria il governo per uno o due punti percentuali in più, che comunque non stravolgerebbero in meglio la situazione del Movimento 5 Stelle? Questa domanda non otterrà probabilmente risposte da parte di Di Maio e compagni. L’ostruzionismo grillino ha comportato finora il posticipo di alcune importanti questioni. Tav, flat-tax ed autonomie regionali saranno approfondite, forse, dopo le elezioni europee. Per quanto riguarda l’alta velocità Torino-Lione e la riforma fiscale, su Atlantico abbiamo già avuto modo di parlarne. Oggi vorremmo offrire il nostro modesto contributo al dibattito concernente le autonomie regionali. La spinta ad un conferimento di maggiori competenze alle regioni italiane, non necessariamente solo settentrionali, movimenta il confronto politico da diversi anni. I referendum consultivi del 2017, tenutisi sia in Lombardia che in Veneto, pur non essendo per loro natura vincolanti, hanno tuttavia dato nuova forza politica alle istanze autonomiste di numerose regioni. In pole position si sono piazzati, per ovvie ragioni, Lombardia e Veneto, che dispongono già di accordi preliminari con Roma, stipulati con il Governo Gentiloni. Ma questo primo passo è stato compiuto anche dall’Emilia Romagna, dove il governatore locale ha ricevuto dal Consiglio regionale il mandato di trattare la concessione di maggiore autonomia, senza la celebrazione di alcun referendum. Vi sono poi almeno altre 10 regioni a statuto ordinario intenzionate a seguire l’esempio dell’Emilia Romagna.

Al momento il tema delle autonomie, anche per chi ha già sottoscritto degli accordi iniziali, si trova in una fase di sostanziale stallo. L’impasse è dovuta, come avviene in merito alle altre note vicende, alla guerra di nervi promossa da Di Maio e soci. Il bacino elettorale pentastellato è maggiormente cospicuo nell’Italia meridionale, e forse per questo motivo Luigi Di Maio intende farsi interprete di quel sentimento secondo il quale, dietro alle richieste autonomiste di tre importanti regioni del nord, (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) ci sarebbe la secessione dei ricchi, tutta a scapito del Mezzogiorno povero. Tutto è discutibile e naturalmente migliorabile, comprese le teorie sposate dal M5S. Intanto, è difficile sostenere la versione che vorrebbe descrivere un autonomismo solo nordico-padano e di stretta osservanza leghista. La nuova Lega salviniana può essere criticata in mille modi, ma francamente i riti celtico-padani e il sedicente dio Po non caratterizzano più il Carroccio di oggi. Oltre a questo, l’Emilia Romagna non sembra essere governata da un uomo di fiducia di Matteo Salvini, e allo stesso modo, il Piemonte di Sergio Chiamparino e la Campania di Vincenzo De Luca, tra quelle 10 regioni decise a richiedere al governo nazionale nuove forme di autonomia. E sempre fra quelle 10 realtà, come si evince chiaramente, vi sono molti territori del Sud, come la stessa Campania, la Basilicata, la Calabria e la Puglia.

Si teme che un forte autogoverno locale di regioni come Lombardia e Veneto dia vita a sistemi sanitari e scolastici di serie A e di serie B, all’interno del territorio nazionale, comportando minori risorse da destinare alle regioni più povere. Questa è una paura alimentata per ora più da posizioni propagandistiche che da studi veri e propri con calcolatrice alla mano. Il discorso può essere ribaltato se si pensa ad una sorta di meccanismo virtuoso che può innescarsi con l’attribuzione di nuovi poteri ad una parte di regioni italiane. Chi rimane inizialmente fuori da questo processo, e magari ha un quadro economico-finanziario non proprio roseo, può risultare stimolato, all’insegna di una competizione positiva, a gestire meglio i propri bilanci e ad affrontare a sua volta l’iter per una maggiore autonomia regionale. È piuttosto significativo, già adesso, come ben 10 regioni a statuto ordinario vogliano incanalarsi nel medesimo percorso di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Il decentramento attuale in Italia non è senz’altro a costo zero e non riesce più ad offrire servizi decenti al territorio. Salvini, auspicando il ripristino delle province secondo lo schema precedente alla riforma Delrio, pone un problema reale, avvertito quotidianamente dai cittadini. Grazie all’ex ministro Delrio, e a Matteo Renzi (la riforma a metà delle province risale ai giorni del suo Esecutivo), gli enti provinciali sono stati svuotati di poteri e risorse, oltre alla privazione del diritto di voto inflitta agli elettori. Così si è creato il tragico paradosso in cui le province si trovano ormai impossibilitate ad occuparsi delle materie di loro tradizionale pertinenza, ma continuano a rappresentare un costo pubblico, semplicemente perché esistono ancora, anche se in maniera non più utile per il cittadino-utente. Si può essere più o meno d’accordo con il ritorno delle province old style, ma lo sfascio prodotto dalla riforma Delrio è evidente a tutti. È sufficiente usare l’auto per accorgersene, e la maggioranza degli italiani la utilizza ogni giorno. Gran parte della rete viaria nazionale era o ancora dovrebbe essere, di competenza provinciale, ed infatti numerosissime strade, tanto al nord quanto al sud, si trovano in condizioni a dir poco disastrose. Gli enti locali, dal gradino più basso a quello più alto, hanno davvero bisogno di una risistemata, che a Di Maio piaccia o meno.

Chi paventa il rischio di disgregazione dell’unità nazionale, anziché immobilizzarsi su posizioni centraliste dal gusto retrò, farebbe bene ad osservare il funzionamento delle migliori democrazie, le quali sono dotate di un assetto federale bilanciato da un governo nazionale autorevole, magari eletto direttamente dai cittadini. Il potere esecutivo, stabile e legittimato dal voto popolare, è il giusto contrappeso alle autonomie locali e rappresenta una forte garanzia per l’unità della nazione. Se si vuole fare un’opposizione utile a Salvini, sarebbe meglio, invece di criminalizzare le esigenze autonomiste, invitare la Lega e il governo a considerare la possibilità di aggiungere alla questione delle autonomie regionali l’ipotesi di una importante riforma istituzionale in senso presidenzialista. È puramente voluto ogni riferimento agli amici di FI e FdI, che paiono avere dimenticato quel centrodestra presidenzialista e federalista del passato.