L’11 maggio si è aperta la Biennale di Venezia, curata quest’anno da Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra. L’evento, alla sua 58esima edizione, è stato intitolato “May You Live In Interesting Times”. Tra le opere esposte ce n’è una che si chiama “Barca Nostra”. È il relitto dell’imbarcazione affondata nel Mediterraneo nel 2015 mentre, carica di emigranti illegali, dalla Libia navigava alla volta dell’Italia. Nel naufragio morirono almeno 700 persone, in gran parte di origine africana.
È stato l’artista svizzero-islandese Christoph Büchel a portarla a Venezia: “è una reliquia di una tragedia umana – ha spiegato in conferenza stampa – ma anche un monumento alle migrazioni contemporanee. L’imbarcazione è diventata un oggetto simbolico, dedicato non solo alle vittime, ma anche alla nostra comune responsabilità nei confronti delle politiche collettive e delle politiche che producono simili relitti”.
Barca Nostra è lì, dunque, per suscitare emozioni, raccoglimento… e naturalmente tanti sensi di colpa. Non sembra riuscirci, però, almeno per adesso. Un tweet pubblicato in un servizio della Bbc riprende il bar vicino all’“installazione”, pieno di gente “che sorseggia degli aperitivi – commenta Matthew Mpoke Bigg dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati – apparentemente ignara dell’orrore che si è consumato in quella nave”. Ignara, anche perché niente spiega di che cosa si tratti.
In un articolo intitolato “Abbiamo scelto il meglio dell’arte a Venezia, adesso ecco il peggio”, pubblicato sulla rivista “Art Newspaper”, Cristina Ruiz ha scritto: “La barca di Büchel avrebbe potuto essere il pezzo più importante della Biennale se non fosse che Büchel ha deciso di non mettere targhe o segni vicino al relitto arrugginito”. È vero che il catalogo della Biennale racconta la storia dell’imbarcazione, ma pochi visitatori lo acquistano: “Così – conclude Cristina Ruiz – molti, se non la maggior parte dei visitatori mangeranno e berranno all’ombra di questa nave senza la minima idea del contesto”.
Quelli che sanno di che cosa si tratta, si fanno un selfie. “Il meglio che si possa dire dell’installazione di Büchel – scrive sul Guardian Adrian Searle – è che ci mette di fronte alla morte. I visitatori della Biennale si fermano e fanno un selfie davanti alla nave”. Per Searle l’idea di Büchel è volgare: “Ritengo il suo appropriarsi della barca in cui così tanti emigranti hanno perso la vita uno spettacolo vile e disgustoso nel contesto della Biennale”. Probabilmente lo sarebbe anche in altri contesti, vien da pensare.
I commenti di altri critici d’arte sono ancora più graffianti. Stephen Pritchard, sul suo blog “Colouring in Culture”, si dice “inorridito” dall’installazione e accusa l’artista di sfruttare la tragedia: “Vedere il mondo dell’arte far festa per un naufragio che fu la tomba di così tante persone è assolutamente ripugnante. Esibire come una ‘reliquia’ o un ‘monumento’ una simile tragica perdita di vite umane vuol dire ridurre a oggetto, a merce e sfruttare totalmente le vite non solo delle vittime ma di tutti gli emigranti”.
“L’arte migliore si fonda sulla moralità, la barca dei migranti della Biennale di Venezia no – dice Yasmin Alibhai-Brown su i News – Büchel ha usato quei reietti per sfoggiare il suo nichilismo artistico e politico”. Per la giornalista, a stridere non è la gente che fa selfie e picnic vicino al tragico reperto. È quel che manca a farle definire l’installazione “efferata”: “Non ci sono le anime morte, nemmeno come sagome nere… del tutto prive di importanza per l’irriverente artista svizzero-islandese”.
La sequenza delle critiche pungenti potrebbe continuare. Ma ha ragione Yasmin Alibhai-Brown. Più che i visitatori a dare scandalo sono l’artista e gli organizzatori della mostra, e con loro il mondo dell’arte “che presenta una preoccupante tendenza a mancare di moralità”. Molto probabilmente, si può forse aggiungere, a mancare sono anche creatività, ingegno, sensibilità artistica, professionalità; e invece c’è tanto inchinarsi al politicamente corretto e alle ideologie del momento. Una delle opere che Cristine Ruiz cataloga come “il peggio” della mostra veneziana è la scultura di Lorenzo Quinn intitolata “Building Bridges”, costruire ponti: enormi avambracci e mani che emergono da due sponde opposte, alla fine dell’Arsenale, e si congiungono, a
simboleggiare “valori come amore, fede e amicizia”. Scrive Cristina Ruiz: “Quinn ha detto di ispirarsi ad artisti come Michelangelo e Bernini, ma il suo ultimo contributo al paesaggio urbano di Venezia deve meno al Rinascimento e al Barocco italiani e più alle gigantesche sculture tanto care a tiranni come Saddam Hussein”.
Nel 2015 il contributo di Christoph Büchel alla Biennale era stato la trasformazione di una chiesa chiusa da tempo, Santa Maria della Misericordia, in una moschea, realizzata con l’aiuto della comunità islamica veneziana, perfetta in ogni dettaglio: entrate diverse per donne e uomini, il tappeto orientato verso La Mecca, scritte in arabo ai muri, drappi per nascondere i mosaici della Croce.