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Barcellona e la sindaca in calzamaglia: l’arroganza ideologico-morale di Ada Colau

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Qualche settimana fa in una città spagnola (mi perdonino gli indipendentisti) l’intero Consiglio comunale, da destra a sinistra, a eccezione del partito del sindaco e di un gruppuscolo rappresentante dei centri sociali, ha rimproverato al primo cittadino di aver perso il controllo della sicurezza urbana. La città in questione è Barcellona e il sindaco non è altri che Ada Colau Ballano. L’episodio è eloquente, in quanto mostra plasticamente il grado di (in)efficacia e di (assenza di) buon senso raggiunti dall’amministrazione movimentista. Ma partiamo dall’inizio.

Colau si iscrive alla facoltà di filosofia senza però portare a termine gli studi. Le uniche occupazioni che si ricordino da lei ricoperte prima di diventare amministratrice della Città dei Conti (intesi come titoli nobiliari) consistono in qualche breve comparsata in una serie televisiva liquidata dopo sole tredici puntate e, soprattutto, il ruolo di portavoce di una associazione contro gli sfratti. Associazione che, ça va sans dire, campa di soldi pubblici. Celebri sono le incursioni contestatarie che, vestita di una bislacca calzamaglia gialla e nera tipo “Justice League”, l’allora portavoce Colau realizzava a favore di telecamere in meeting di vari partiti. L’importante è farsi notare. In effetti, ben più che per
evitare sfratti, la “piattaforma anti-sfratti” sarà utilizzata dalla Colau come trampolino per il suo salto in politica.

Salto che, sull’onda della marea antipolitica, la porta di slancio nel 2015 a diventare sindaco di Barcellona con una pattuglia rappresentante il 25 per cento dei voti e senza altro appoggio nel Consiglio comunale che quello del proprio partito, formato da dottrinari di estrema sinistra e da varia umanità sinistrorsa. Noi italiani l’abbiamo conosciuta per qualche sua apparizione nelle nostre televisioni, dove non ha mancato di proporsi come pasionaria del progressismo terzomondista. Che poi non è molto meno di ciò che ha fatto come sindaco. Al suo “attivo” come gestore della città, difatti, la Colau ha ben poco. Di positivo, in compenso, ancora meno.

Assolutamente incapace di arrivare a compromessi a causa del suo radicalismo velleitario, la Colau ha realizzato ben poco a Barcellona. E di quel poco, nulla che abbia migliorato la vita dei barcellonesi. Se si escludono i numerosi tweet e la logorrea di post su Facebook, difatti, il suo bilancio è a dir poco magro. Coerente con le sue numerose e lacrimose intemerate a favore di tutti i vucumprà del mondo, durante il suo mandato la Colau ha visto esplodere il problema dei venditori ambulanti, che oramai si sono appropriati di gran parte delle vie di transito del centro e del porto. Problema che ora, dopo che il genio è uscito dalla lampada, lei intenderebbe risolvere con un incremento delle azioni di polizia: curiosa piroetta ideologica per un sindaco che fino all’altro ieri aveva tuonato che non d’un problema di sicurezza si trattava. Ma andiamo avanti.

Altro capitolo particolarmente fallimentare del suo mandato è quello del livello degli affitti: tema che di fatto l’ha proiettata sulla ribalta politica cittadina. Da buona radicale di sinistra digiuna di buone letture economiche, la Colau ha pensato bene che il problema dei prezzi crescenti delle abitazioni si potesse risolvere dando qualche sganassone amministrativo ai proprietari di appartamenti. Minore protezione contro gli sfratti, riduzione dei permessi di costruzione, tentativi abborracciati di calmierare gli affitti, e un nugolo di micro misure ispirate alla stessa filosofia dirigista e pauperista. Il risultato? Affitti alle stelle e crescente scarsità di abitazioni. Applausi. Ma c’è di più. Alle elezioni del 2015 si presenta come paladina della democrazia diretta e strenua sostenitrice della convocazione di referendum cittadini vincolanti anche per decidere sull’installazione di fioriere.

Tuttavia, visti gli esiti quasi sempre sfavorevoli dei primi referendum, la Colau abbandona gradualmente i propositi iniziali e trasforma i referendum in mere consultazioni non vincolanti. Insomma, parlate pure che tanto alla fine decido io. E poi ci sono i conti pubblici. Nonostante abbia ereditato un bilancio in surplus, quest’anno la Colau si vedrà obbligata a tagliare diversi programmi di investimento. Difatti, com’era ampiamente prevedibile, le mirabolanti stime di aumento delle entrate fiscali per quest’anno si sono dimostrate del tutto sproporzionate.

Ma la pessima gestione passa in secondo piano rispetto all’afflato umanitario della prima cittadina. Insomma, una bella foto con qualche immigrato (meglio se appena sbarcato) vale più della sporcizia che si accumula assai più abbondante di un tempo. È, difatti, questa la cifra politica di un sindaco che ha fatto dell’arroganza ideologico-morale il suo unico strumento di marketing. Nascondere i problemi dietro una montagna di messaggi buonisti sulle reti sociali e di photo opportunity: come quell’immagine di inizio mandato in cui, da proletaria esemplare, lei si serviva della metropolitana. E non importa se da allora non abbia più calpestato una banchina della metro.

La politica dell’immagine, insomma: dell’atteggiarsi, delle parole che contano più dei fatti. Noi italiani ne sappiamo qualcosa, ma non possiamo aspirare ai funambolismi del sindaco di Barcellona. Rimane una speranza. Si chiamano elezioni comunali e si terranno l’anno che viene. Una buona occasione per regalare alla Colau tutto il tempo che vuole per i suoi adorati social network. E per ridare a una città tanto bella l’amministrazione che si merita.

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