È il padre dimenticato della destra conservatrice, in quell’America nella quale vale realmente la pena di definirsi “conservatori”. La vicenda umana e politica di Barry Goldwater (1909-1998) è sempre stata costellata da un unico obiettivo: preservare le libertà costituzionali, degli individui e delle comunità locali, proteggendole dai soprusi e dalla prepotenza fiscale e decisionale di Washington.
In questo senso, Goldwater è il vero erede del costituzionalismo delle origini e di quei padri fondatori che hanno definito i principi dell’eccezionalismo statunitense, limitando il governo a poche funzioni e ad un’accountability costante nei confronti dei cittadini.
È il repubblicano libertario degli anni ‘60 il cui maggior merito non è stato vincere elezioni, ma seminare quel terreno fertile che avrebbe visto i suoi frutti solo con la vittoria di Ronald Reagan alle presidenziali del 1980. È grazie infatti al lavoro intellettuale di Goldwater che l’America degli anni ’80 ha riscoperto con Reagan i valori che l’avevano resa grande agli occhi del mondo.
Nato e cresciuto nell’amata Arizona, Goldwater passerà gran parte della sua vita in Senato, rappresentando il suo Stato dal 1953 al 1965, per poi tornarvi dal 1969 al 1987. Fu un emblema dei Conservatori, ma di quelli libertari. A differenza del tradizionalismo di molti colleghi, la linea di Goldwater era infatti molto più liberale su temi come l’aborto e i diritti omosessuali. Se c’era qualcosa su cui non poteva accettare compromessi era la libertà in tutte le sue sfaccettature: essa non ha bisogno di alcuna legittimazione pubblica, in quanto insita in noi stessi, e per questo inviolabile. Celebre è la sua frase “I would remind you that extremism in the defense of liberty is no vice. And let me remind you also that moderation in the pursuit of justice is no virtue”.
Questo essere radicale, non nei metodi, ma nella strenua difesa della libertà, lo ha portato spesso ad essere un unicum anche all’interno del partito. Certamente la sua epoca offriva Repubblicani più vicini al centro e all’establishment come il rivale Nelson Rockefeller, ma a Goldwater questo non è mai interessato. Non aveva alcun timore di risultare impopolare o distante dalle élites, come dimostrò la sua opposizione agli eccessi confiscatori del New Deal. In questo consisteva il suo radicalismo liberale: non arretrare sui principi, anche a costo di perdere la partita più grande della propria vita.
E lui l’ha persa nel 1964, uscito sconfitto dalle elezioni presidenziali che hanno visto riconfermato Lyndon Johnson. Siamo nell’epoca calda delle rivendicazioni di Martin Luther King jr. e del movimento per i diritti civili. Il suo peccato originale, come ha ricordato Marco Respinti, è stato quello di aver sfidato il consenso dell’epoca, ovvero le diverse declinazioni dello statalismo: quello socialdemocratico occidentale e quello totalitario del mondo comunista.
Per Goldwater quella campagna elettorale fu anche l’occasione per ribadire, in virtù del decimo emendamento, che gli Stati devono poter decidere di loro stessi, senza che il governo federale intervenga nelle loro faccende, anche se mosso dalle migliori intenzioni.
La sua opposizione al Civil Rights Act di quell’anno gli costò la vittoria e le peggiori accuse di razzismo, anche alla luce dei numerosi consensi che aveva ottenuto fra i Democratici del Sud, che avevano interpretato la sua posizione in chiave segregazionista. Se è pur vero che Goldwater non ha mai approvato la legge in questione, in particolare ai Titoli II e VII, non è stato certamente per motivi razziali. Per lui era incostituzionale e avrebbe violato la libertà dei singoli Stati di decidere autonomamente in tema di desegregazione.
Chi conosce la vicenda umana di Goldwater sa che tutto si può dire tranne che fosse razzista. Ricordiamo infatti che votò a favore del Civil Rights Act del 1957 e che fu un fervente sostenitore della desegregazione a livello federale: lottò infatti affinchè la sua assistente afroamericana Katherine Maxwell potesse pranzare liberamente con le sue colleghe bianche nella mensa del Senato. Inoltre, il suo running mate nel ’64 era William E. Miller, coautore della legislazione sui diritti civili degli anni ’50. C’è di più: fu apertamente favorevole alla desegregazione in Arizona, che tra l’altro divenne illegale a Phoenix già nel 1953. Si batté per l’uguaglianza razziale all’interno dell’Arizona National Guard, e diventò un attivo sostenitore della branca locale del NAACP (National Association for the advancement of colored people). Peccato che la controparte Democratica non potesse dimostrare con altrettanta trasparenza la propria avversione all’universo razzista.
Contrario ad ogni forma di segregazione, allo stesso tempo Goldwater credeva in un processo di desegregazione volontario, locale e non forzato dal governo federale, come affermò in campagna elettorale a Chicago:
“No law can make one person like another if it doesn’t want to. Government can do little more than offer moral leadership and persuasion. The ultimate solution lies in the hearts of men”.
Scontata è dunque la sua opposizione per i programmi di affermative action intrapresi dai Democratici in nome dell’equità.
In Goldwater riscopriamo l’America per come è stata concepita, nella coesistenza di individui creati uguali da Dio pur nella loro diversità, indipendenti e responsabili, senza che qualcuno pretenda di decidere al posto loro o di imporre limiti alla proprietà e alla ricchezza personale. Limiti che, se esasperati, avrebbero inibito quella coesione e quella generosità insite nella cooperazione volontaria, in nome di una fallace redistribuzione coercitiva. È l’affresco di una nazione orgogliosa dei propri valori, fatta di persone che non aspettano il governo o la società, ma che preferiscono fare da sé, come lo stesso Goldwater ricordò alla Convention repubblicana del 1964:
“We do not seek to lead anyone’s life for him – we seek only to secure his rights and to guarantee him opportunity to strive, with government performing only those needed and constitutionally sanctioned tasks which cannot otherwise be performed. […] Those who seek to live your lives for you, to take your liberties in return for relieving you of yours, those who elevate the state and downgrade the citizen […] Those who seek absolute power, even though they seek it to do what they regard as good, are simply demanding the right to enforce their own version of heaven on earth”.
È bene ribadire che la coerenza granitica di Goldwater è quasi unica anche nel panorama politico americano, e forse rintracciabile solo in figure come con l’ex deputato Ron Paul.
Il titolo delle sue memorie, “With no apologies”, non poteva essere più azzeccato: nessuna scusa o ripensamento per una vita vissuta in assenza di compromessi. Forse la sua può essere vista come un’ostinazione controproducente, ma se ben guardiamo, la radicalità nel difendere l’individuo dovrebbe essere d’insegnamento a coloro che preferiscono l’inconsistente accezione di “moderato” o di “centrista”, con cui spesso ci si riempie la bocca, quasi ad aver timore di professarsi “di destra” in nome delle libertà.
È stato l’uomo giusto nel momento sbagliato o, come l’ha definito la Heritage Foundation, “the presidential loser who won the future”. Eccome se l’ha vinto, preparando quell’humus ideologico fusionista per l’approdo di Ronald Reagan alla Casa Bianca, che pure lo appoggiò in quel lontano 1964 con il celebre endorsement “A Time for choosing”:
“We will keep in mind and remember that Barry Goldwater has faith in us. He has faith that you and I have the ability and the dignity and the right to make our own decisions and determine our own destiny”.
Se la libertà avesse un nome, avrebbe certamente quello di Barry Morris Goldwater.