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Basta con i sensi di colpa: il colonialismo occidentale non è stato l’unico, né il peggiore

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Tra le varie sottosezioni che compongono la pseudocultura woke, occupa un posto di rilievo anche il cosiddetto “pensiero decoloniale”. Quale il significato di questa espressione che sta diventando sempre più importante nel mondo accademico anglo-americano, e che ora penetra anche da noi?

Comincio chiarendo che sono perfettamente cosciente dei molti significati negativi che al termine “colonialismo” sono giustamente associati. Vorrei però subito chiarire che quello europeo non è affatto l’unico manifestatosi nella storia.

Quando una certa civiltà attraversa una fase espansiva, è in pratica inevitabile che cerchi di conquistare militarmente, commercialmente o in entrambi i modi aree geografiche percepite come più deboli. Gli esempi sono tantissimi. Il colonialismo europeo in Africa è stato preceduto da quello arabo, vero iniziatore del fenomeno dello schiavismo. In Asia la Cina ha praticato politiche coloniali in molte fasi del suo sviluppo millenario, riducendo al rango di vassalli gli Stati più piccoli e più deboli che con essa confinavano.

Ultimo caso asiatico è quello giapponese. L’impero nipponico, basandosi sul progetto denominato “Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale”, si lanciò in un’opera di conquista che allargò a dismisura la sua influenza nel Pacifico, e che fallì soltanto quando gli Stati Uniti riuscirono a prevalere grazie alla schiacciante superiorità del loro apparato industriale e militare.

Insomma, bisogna stare attenti quando si parla di questo argomento. Europei ed americani, che la suddetta pseudocultura woke vuole convincere a stracciarsi le vesti un giorno sì e l’altro pure per aver inventato il colonialismo, non hanno invece inventato un bel nulla. Ci sono stati, nel corso della storia umana, colonialismi ben peggiori di quello occidentale, e in quei casi nessuno – ma proprio nessuno – si straccia le vesti.

Sarebbe utile, allora, rammentare che le politiche coloniali dell’Occidente non hanno avuto soltanto effetti negativi. Hanno consentito, per esempio, di costruire infrastrutture fondamentali in aree del mondo che ne erano del tutto sprovviste. E hanno inoltre permesso di migliorare le condizioni sanitarie di molte popolazioni.

Ci hanno abituato a pensare che l’arretratezza in cui tuttora si trova il continente africano sia una colpa imputabile soltanto al colonialismo, ma è falso. Non è colpa dei precedenti colonizzatori se tutti o quasi i nuovi Stati africani, dopo essere diventati indipendenti, hanno esibito tassi di corruzione inimmaginabili e sono diventati preda di dittatori locali assai più violenti dei colonialisti.

Questa è la narrazione che vogliono imporci l’Onu e altre organizzazioni internazionali, spesso animate da uno spirito anti-occidentale preconcetto. In realtà la suddetta arretratezza si deve all’incapacità di quei popoli di dotarsi di istituzioni politiche ed economiche efficienti. Una parziale eccezione è costituita dal Sudafrica, proprio perché in quel caso le strutture coloniali non sono state totalmente smantellate.

C’è tuttavia anche un aspetto più prettamente culturale di cui tenere conto. Il suddetto “pensiero decoloniale” vorrebbe infatti convincerci che anche la scienza – per fare un solo esempio – va “decolonizzata”. La medicina dell’Occidente ha i suoi limiti, come abbiamo constatato in occasione della pandemia dovuta al Covid-19. Tuttavia affermare che sciamanesimo e riti magici sono ad essa equivalenti è imperdonabile.

Iniziò a sostenere tesi simili il filosofo della scienza Paul Feyerabend alla metà del secolo scorso, e un notevole contributo in tale direzione lo fornirono i teorici francesi della “decostruzione” e della “post-modernità” come Derrida, Lyotard e altri.

Tutto, per costoro, era relativo. I terrapiattisti non si possono attaccare troppo duramente perché esprimono il loro “punto di vista”. Né è possibile sostenere che un medico occidentale fornisce cure migliori di quelle di uno sciamano. Quest’ultimo, infatti, cura l’anima più che il corpo, ottenendo alla fine risultati più apprezzabili. Persino la fisica di Newton, secondo questo trend, non va presa troppo sul serio giacché è, anch’essa, un tipico prodotto coloniale.

Che dire? Sarebbe il caso, forse, di recuperare un po’ di orgoglio per i risultati raggiunti dalla civiltà occidentale non solo nella scienza, ma in ogni ambito dell’agire e del sapere umano. E varrebbe pure la pena di ammettere che il colonialismo occidentale (che non è l’unico nella storia, come prima accennavo) ha prodotto danni ma anche vantaggi. Checché ne dicano l’Onu e altre organizzazioni internazionali, la nostra cultura costituisce tuttora un paradigma di riferimento.

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