“Bianco”, Bret Easton Ellis sulla cialtronaggine dei trumpfobici e il narcisismo vittimista dei Millennials

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Si fa un gran parlare di “Bianco”, l’intemerata di Bret Easton Ellis contro il politicamente corretto. Diciamo subito che vale la pena leggerlo, gli spunti non mancano. Diciamo però altrettanto in fretta che il saggio non è lo sguardo di uno scrittore sul mondo. È lo sguardo di Bret Easton Ellis. Sul mondo? No: su se stesso. Bret Easton Ellis, che faccia romanzi, sceneggiature o pamphlet, non parla mai del mondo: parla di Bret Easton Ellis che parla di Bret Easton Ellis che parla di Bret Easton Ellis che parla del mondo, che però a sua volta parla di Bret Easton Ellis. Ciò precisato, introdotta la chiave di lettura, si possono dire alcune cose.

La prima è il livello parossistico raggiunto dall’ipocrisia americana: si stenta a credere – ma presto ci si convince che è tutto vero – ai milionari californiani o di Manhattan che maledicono il Trump che li rende sempre più ricchi; agli intellettuali e artisti che lo vorrebbero morto per squisite ragioni morali, e però indulgono nei soliti, non commendevoli, vizi e vezzi e desideri; all’isteria delle madame che, “per colpa di Trump”, subiscono aborti spontanei, attacchi di panico, consumo compulsivo di psicofarmaci. Oltre il grottesco, e, leggendo, oltre l’irritazione, tanto più che questa onda melmosa della coscienza sta rapidamente avvicinandosi fin qui.

Un altro punto che Bret Easton Ellis coglie in pieno è sulla insopportabile leggerezza della generazione Millennials, inzuppata di narcisismo vittimista, coccolata, schermata, ovattata dalla nascita fino all’età della ragione, che però non viene mai, inevitabilmente proiettata, alla resa dei conti imposta dall’età adulta, ad una involuzione miserabile, fetale: capricci, bizze, esibizionismo autolesionista, se il libro dei sogni non diventa realtà io pesto i piedi, mi faccio, me la piglio con Trump, mi lascio andare perché questo cazzo di mondo non s’accorge di me. È la sindrome del rapper (specie alla vaccinara, tricolore), vestito come un cretino a 40 anni, rancoroso, disadattato, immaturo, ferocemente legittimato a pretendere tutto e subito.

Tutti questi fenomeni deleteri, Bret Easton Ellis li racconta (a Bret Easton Ellis, che li racconta al mondo che legge Bret Easton Ellis), e ci illumina. Dove Bret Easton Ellis mostra la corda è in certa ipocrisia contro l’ipocrisia, in quel distaccarsi dalle miserie contemporanee con l’aplomb del grande saggio che ha vissuto, ha avuto il successo, ha fatto il militare a Cuneo o Chattanooga, si è drogato, ha avuto tanti amanti, si è perduto negli anni Ottanta, Novanta e Zero, e, quando twitta, tutto il mondo trema – lui è Bret Easton Ellis, non dimenticartelo mai. Mentre narra la cialtronaggine dei trumpfobici, tutti del livello sociale, anche se non sempre culturale, di Bret Easton Ellis (d’ora in poi: BEE, la Queen Bee, l’Ape Regina), BEE ha affettata cura di tradire una sorta di indulgente compatimento: popolino popolazzo, io ti amo anche se non capisci un…

Quella di BEE non è complicità col popoulace: è sofferenza, la sua democrazia è pur sempre a ciglio inarcato; sia ben chiaro che neppure BEE sopporta il rozzo, becero Trump: solo per motivi assai più sottili, approfonditi, analitici. Questo, BEE si premura di suggerirlo in ogni pagina, in ogni rigo. Poco importa se Trump ha mantenuto la promessa, rendere l’America di nuovo grande, e in questo slogan sono contenuti il recupero di una barra in politica estera, l’argine agli attacchi cinesi e russi, la definizione di non poche issues lasciate aperte come ferite dalla disastrosa amministrazione Obama-Clinton, la crescita costante dell’economia, incluso l’incremento dei posti di lavoro. In una parola, l’America, data da tutti al suo lento e inesorabile declino, torna superpotenza indiscussa; e che diavolo dovrebbe fare un presidente per il suo Paese? Forse avallare governi Monty Python, assemblati da minoranze perdenti, ricattati da costole di minoranze quasi inesistenti?

Ma tutto questo, si capisce, per BEE è irrilevante, anzi è perfino imbarazzante. Perché BEE, mentre si distingue dal volgo, ha tuttavia l’impulso di porsi pur sempre come membro di quella élite progressista di successo che del cafone antipolitico imparruccato non tollera i successi e diffida delle rozze istanze sovraniste o isolazioniste. La critica la si può anche avanzare nientemeno che da sopra, anziché di lato, rispetto alla créme della élite: ma sempre fondamentalmente omogenea. Io sono BEE, non condivido la vostra intolleranza paranoica, ma solo perché io vedo oltre, vado oltre; sui massimi sistemi siamo d’accordo, restiamo d’accordo. Così va a finire che l’irrazionalità del rifiuto di Trump in BEE è solo apparentemente più razionale di quella del popolaccio. Perché neppure BEE la spiega: la dà per scontata, e basta. Caro BEE, il tuo “Bianco” va letto, è interessante, ma non convince fino in fondo: la tua non è autentica democrazia, è sopportazione, tolleranza, degnazione. E, in definitiva, fastidio per i risultati che un presidente imbarazzante vi ha portato, mentre anche tu avresti amato vedere il tuo Paese conciato peggio, pur di avere ragione.

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