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Biden predica “unità”, ma il suo discorso è divisivo e i Democratici sono sulle barricate da quattro anni

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 4 settembre 2019

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Come ampiamente previsto il richiamo all’unità, a superare le divisioni, a fare in modo che ogni disaccordo non diventi “una guerra totale”, è stato centrale nel discorso di insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ha giurato ieri. Così come prevedibile il clima fiabesco nel quale i principali network nostrani e, con i loro tweet, politici e giornalisti di sinistra, hanno immerso l’evento. Più che l’insediamento di un nuovo presidente, pareva di seguire una cerimonia di beatificazione (sebbene non ai livelli di Obama). Ma non è su questi patetici aspetti che ci soffermeremo.

Come da tradizione (alla quale nemmeno Trump si era sottratto), anche Biden si è presentato come “il presidente di tutti”, anche degli americani che non lo hanno votato. Sono ormai frasi di rito, ogni presidente fa appello all’unità e alla coesione del Paese. Ma questa volta, per evidenti motivi, non sono stati passaggi rituali, il tema ha connotato tutto il discorso: è il momento di “curare l’anima della nazione”, “dobbiamo porre fine a questa guerra incivile che mette i rossi contro i blu, i conservatori contro i liberal“.

Che in America sia in corso da anni una guerra civile o incivile strisciante, per il momento a bassa intensità, non c’è alcun dubbio. È sulle cause di questa polarizzazione estrema, invece, che ancora siamo ben lungi dal fare chiarezza, o meglio non viene detta tutta la verità.

Il problema è che questi sani principi, in una democrazia, devono essere anche praticati, non solo enunciati. E soprattutto, non solo quando è troppo facile, quando si è appena vinta una elezione e si è riconquistata la presidenza. Dovrebbero essere praticati da tutte le parti, nella vittoria come nella sconfitta. E su questo i Democratici, e lo stesso Biden, non sono nella posizione di poter dare lezioni.

Negli ultimi quattro anni, dalla transizione del 2016, hanno praticato l’opposto di quello che ieri il presidente ha predicato.

Non si può pensare di essere credibili negli appelli all’unità se non ci si assume la propria parte di responsabilità della “guerra incivile” in corso. Una guerra che in questi quattro anni i Democratici hanno alimentato e combattuto con tutti i mezzi a loro disposizione, con tutta la loro potenza di fuoco, da tutte le postazioni (istituzionali, mediatiche, culturali) e financo nelle strade.

Un appello, quello di Biden ieri, che tra l’altro è platealmente contraddetto proprio in questi giorni dalle loro iniziative e parole, al Congresso e fuori. Secondo impeachment, senatori repubblicani minacciati di espulsioni, processi e blacklist, richieste di abiura, damnatio memoriae dell’avversario. Per non parlare delle purghe sui Social. Un generale clima da epurazione. Lo stesso Biden che oggi invoca “unità”, ieri paragonava i senatori Cruz e Hawley a Goebbels, il ministro nazista della propaganda, per aver sostenuto le denunce di brogli. E durante la campagna aveva già paragonato a Goebbels lo stesso Trump.

D’altronde, dallo stesso discorso del neo presidente si evince che tutta la responsabilità della “guerra incivile” ricade sugli avversari. Il “suprematismo bianco”, il “razzismo sistemico”, il “terrorismo interno”, tutto l’estremismo e tutta la violenza politica sembra stare da una sola parte.

Nemmeno una menzione en passant per l’estremismo e la violenza dei movimenti della sinistra radicale, come Black Lives Matter e Antifa (che Biden ebbe a definire “un’idea, non un’organizzazione”), che per tutta l’estate hanno messo a ferro e fuoco decine di città, mesi di rivolte, provocando devastazioni immani, decine di vittime, danni per due miliardi dollari, e occupando edifici governativi per settimane. Violenze tollerate da sindaci, governatori e procuratori Democratici, minimizzate quando non giustificate dai media liberal. Persino Biden, nel condannare le violenze durante la campagna, disse che comunque i “manifestanti” meritavano di essere ascoltati. E dalla Campagna Biden/Harris sono arrivate donazioni a gruppi impegnati a far scarcerare e scagionare dalle accuse quei pochi responsabili individuati.

Da un giorno all’altro, per come ce la presentano politici e media di sinistra, sull’America è tornato a splendere il sole, mentre fino a ieri era la terra delle tenebre. È questa dicotomia esasperata tra Bene e Male che caratterizza la narrazione della sinistra, anche nel giorno della vittoria, che contraddice e nega alla radice ogni discorso di riconciliazione. “Oggi, celebriamo il trionfo non di un candidato, ma della causa della democrazia”, ha detto Biden ieri aprendo il suo discorso, implicitamente sostenendo che una vittoria del suo avversario sarebbe stata la sconfitta della democrazia.

È un punto, una contraddizione del discorso di Biden che ha perfettamente colto il board editoriale del Wall Street Journal: “Nel suo appello all’unità c’era ben più di un’indicazione che siamo tenuti ad unirci sotto un unico punto di vista”. Quello progressista…

Nelle parole del presidente, da una parte c’è chi crede negli “ideali americani”, dall’altra i razzisti e i nativisti. Ma si riducono a questo, si chiede il Wsj, le “nostre differenze politiche”? “Suona troppo simile alla tendenza di Barack Obama a considerare le differenze di ideologia o politiche come divisioni tra illuminismo e intolleranza. È divisivo nella sua superiorità culturale e morale, come hanno dimostrato gli anni di Obama aprendo lo spazio politico per Trump”.

“C’è la verità e ci sono le bugie”, dice Biden. Ma come osserva ancora il board del Wsj, le bugie non stanno tutte da una parte sola. Le differenze politiche non si possono classificare come verità da una parte e bugie dall’altra.

“Abbiamo sentito troppo poco nel discorso di Biden – conclude il Wsj – per rassicurare i conservatori, ora epurati e ostracizzati, sul fatto che annullerà gli incoraggiati censori progressisti. Se il suo perseguimento della giustizia sociale diventa una spinta a dare al razzismo la colpa di ogni iniquità nella vita americana, dividerà più che unire. Se insiste sul fatto che coloro che sono in disaccordo sul cambiamento climatico sono ‘negazionisti’ a cui non importa nulla del pianeta, alienerà milioni di persone”.

E come si può invocare “unità”, se per quattro anni l’avversario oggi sconfitto, votato da 75 milioni di elettori, è stato dipinto come l’impersonificazione del Male, l’opposto della democrazia, un tiranno da abbattere? È così che i Democratici hanno considerato Trump dalla notte dell’8 novembre 2016: un tiranno da abbattere. Una demonizzazione che qui in Italia conosciamo bene e che sembra connaturata nella sinistra.

Il mito dell’elezione rubata, e della conseguente “Resistenza” contro l’usurpatore, nasce nel 2016 in casa dei Democratici e ha avvelenato per quattro lunghi anni il clima politico negli Stati Uniti. In un famigerato tweet che riportiamo, la Speaker della Camera Nancy Pelosi, ancora nel maggio 2017, parlava di “elezione rubata, non ci sono dubbi. Il Congresso ha il dovere di proteggere la nostra democrazia”.

Solo apparentemente fu una transizione corretta e ordinata. Obama incontrò Trump e fu presente alla cerimonia di insediamento. Ma nel frattempo, la sua amministrazione spiava la squadra di governo del nuovo presidente per creare i presupposti, se non per una sua rimozione dall’incarico, per lo meno per una delegittimazione permanente, come poi avvenuto.

Un falso scandalo montato ad arte – oggi lo sappiamo – dalla Campagna Clinton, al fine di screditare Trump e coprire l’imbarazzante Emailgate che la coinvolgeva, fu usato per fabbricarci sopra il Russiagate, per accreditare la teoria che Trump avesse rubato le elezioni con l’aiuto della Russia. Partita come una polpetta avvelenata da campagna elettorale, con il contributo decisivo dei vertici della CIA e dell’FBI, e la benedizione della Casa Bianca di Obama, si trasformò in un vero e proprio tentativo – questo sì – di colpo di stato. Non solo erano a conoscenza del piano della Campagna Clinton per screditare Trump, ma sapevano che l’intelligence russa ne era al corrente e che poteva essere all’opera con la sua disinformatja.

Nonostante tutto, l’FBI fu spinta a muoversi per accreditare l’accusa della collusione Trump-Russia, fino a ottenere mandati di sorveglianza, nascondendo prove alle corti FISA, e fino alla nomina del procuratore speciale Mueller (per i dettagli vi rimando ai nostri approfondimenti).

Dunque, non rientrava forse il Russiagate in quella “cultura dei fatti manipolati o inventati”, e tra quelle “bugie dette per il potere”, di cui ha parlato Biden ieri?

E ad essere onesti, sebbene non riconosciuti dai tribunali (e per la verità nemmeno esaminati) sono di gran lunga più documentati alcuni degli episodi di frode elettorale denunciati dal presidente Trump di quanto lo fosse la sua presunta collusione con la Russia nel 2016. Eppure, con quella bufala si andò avanti per anni, con campagne di stampa, inchieste e incriminazioni, mentre oggi le denunce di frodi e irregolarità nel voto del 3 novembre scorso vengono bollate come un tentativo di golpe. Il tentativo di golpe ci fu, ma nel 2016.

Vedremo nella pratica quotidiana se Biden agirà coerentemente con il suo appello all’unità.

Secondo Federico Rampini, che ha avuto in questi anni uno sguardo obiettivo sulla politica americana, “Biden non ha il carisma di Barack Obama ma ha meditato sugli errori dei Democratici. La sua campagna è stata costruita tenendo a bada un’ala sinistra del partito egemone nei media, nelle università e in qualche metropoli costiera”.

Non saremmo così sicuri che Biden abbia riconosciuto gli errori dei Democratici e nelle sue parole non c’è ombra di autocritica. In realtà, non serviva, anzi era controproducente in campagna elettorale che fosse visibile l’egemonia culturale della sinistra. La candidatura stessa di Biden è stata strumentale proprio a nascondere l’agenda radicale che c’era dietro di lui e che è entrata eccome, con lui, alla Casa Bianca. E se attuata, renderà l’America più povera, più debole e più divisa.

Sbaglia chi vede in Biden un argine, è invece il cavallo di Troia del progressismo e della sinistra radicale. Non che Trump e i conservatori non abbiano provato a convincere di questo gli elettori indipendenti, ma non ci sono riusciti: per la sua età, per la sua storia politica di “moderato”, per le sue poche iniziative elettorali e per la complicità dei media che hanno accuratamente evitato di approfondire il suo programma.

Ieri nel suo discorso Biden ha citato il presidente Lincoln, ma pochi giorni prima a Boston i suoi compagni di partito avevano fatto rimuovere la statua del presidente che abolì la schiavitù.

Dopo quattro anni in cui abbiamo visto politici, media tradizionali e social, accademia, Hollywood, il sistema giudiziario, radicalizzarsi solo per cacciare Trump, quanto è credibile che tornino indietro come se nulla fosse accaduto?

Certo, ora non c’è più bisogno degli eccessi della propaganda. Ormai, con Biden alla Casa Bianca, l’agenda radicale e la cancel culture sono istituzionalizzate.

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