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Birmania, il passato che non passa: i militari si riprendono tutto il potere (con il via libera di Pechino)

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 12 settembre 2019

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Lunedì mattina la Birmania (Myanmar in lingua locale) si è svegliata con la notizia dell’arresto delle principali cariche civili dello Stato, tra cui il primo ministro de facto Aung San Suu Kyi e il presidente della nazione U Win Myint, entrambi ex prigionieri politici negli anni della dittatura militare. La televisione delle forze armate annunciava che il potere legislativo, esecutivo e giudiziario passavano nelle mani del capo dell’esercito (Tatmadaw), il generale Min Aung Hlaing. Mentre i soldati pattugliavano le strade della capitale Naypyidaw e delle principali città del Paese, l’accesso alla rete telefonica era interrotto e i servizi bancari sospesi. Il colpo di stato si produceva alla vigilia della prima sessione del nuovo parlamento nazionale, eletto a novembre, in cui la National League for Democracy (NLD) di Aung San Suu Kyi aveva ottenuto l’83 per cento dei voti, relegando il partito fedele ai militari ad una percentuale nettamente minoritaria.

L’esercito, a cui in base alla costituzione del 2008 spetta comunque il 25 per cento dei seggi nell’assemblea parlamentare, da settimane denunciava presunte irregolarità nel processo elettorale, chiedendo una revisione delle schede e il conseguente aggiornamento della sessione parlamentare. In mancanza di riscontri da parte del partito di maggioranza, questa la motivazione ufficiale dei militari, le forze armate hanno preso la decisione di “ristabilire l’ordine”, assumendo i pieni poteri durante un anno.

La Birmania è stata governata da regimi militari per la maggior parte della sua storia, fin dall’indipendenza come ex colonia britannica ottenuta nel 1948, nella quale giocò un ruolo di primo piano il padre di Aung San Suu Kyi, il nazionalista Aung San, considerato da allora il padre della patria birmana. Nel 1962 il generale Ne Win si impadronì del comando estromettendo un’amministrazione civile accusata di malgoverno: avrebbe retto la Birmania con il pugno di ferro fino al 1988, quando fu costretto a dimettersi dopo un’ondata di proteste nazionali scatenate dalla crisi economica. Una nuova generazione di militari ne avrebbe preso il posto, dando vita a quella devastante macchina repressiva passata alla storia con il nome orwelliano di State Peace and Development Council (SPDC), che dal 1988 al 2011 – prima sotto la dittatura di Saw Maung e poi sotto la lunga tirannia del Generale Than Shwe – avrebbe ridotto la Birmania ad una prigione a cielo aperto, isolandola dal resto del mondo, condannandola alla fame, razziandone le risorse naturali e svendendola al regime cinese.

Dopo le proteste anti-governative del 2007, in cui i monaci furono per la prima volta protagonisti attivi della dissidenza e tra le principali vittime della spietata repressione, nel 2008 la giunta militare acconsentiva ad un passaggio di potere controllato in base ad una nuova costituzione che ne garantiva comunque la preponderanza nei settori chiave della politica e dell’economia nazionale. Gli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi venivano revocati nel novembre 2010. La NLD boicottava le prime elezioni post-dittatura, denunciando l’assenza di garanzie democratiche, stravinte conseguentemente dal partito dei militari (USDP). Nel 2012 la leader del movimento democratico birmano si presentava insieme ad altri oppositori in una tornata di elezioni suppletive: per la prima volta Aung San Suu Kyi e la NLD entravano in parlamento come forza d’opposizione riconosciuta.

Il successivo trionfo elettorale – nelle legislative del 2015 – apriva ad Aung San Suu Kyi le porte del governo del Paese in qualità di State Counsellor, una carica equivalente a quella di primo ministro, istituita appositamente per garantirle un ruolo di primo piano, essendole interdetta per legge la presidenza dello Stato (in quanto sposata con un cittadino britannico). Gli inevitabili compromessi con le forze armate in una transizione controllata dal Tatmadaw le sono valsi aspre critiche da parte degli stessi che ne avevano fatto un’eroina della lotta per la democrazia: sotto accusa in particolare il suo silenzio nella brutale repressione della minoranza musulmana dei Rohingya, che ha portato a una crisi umanitaria di ampie proporzioni. Il principale artefice di questa persecuzione è stato proprio il generale Min Aung Hlaing, che ieri ha deposto il governo civile, ha fatto arrestare Aung San Suu Kyi e ha riportato indietro di almeno quindici anni le lancette dell’orologio della disgraziata storia birmana.

Nella prima dichiarazione ufficiale l’ex primo ministro ha incitato la popolazione a riversarsi nelle strade per “opporsi al colpo di stato dei militari” contro la costituzione “da loro stessi redatta”. Dal canto loro le forze armate hanno fatto sapere che al termine del periodo di emergenza nazionale decretato per i prossimi dodici mesi convocheranno nuove elezioni e trasferiranno nuovamente il potere. Ma nessuno che conosca un poco il dramma di questa nazione massacrata può farsi illusioni sui prossimi sviluppi. Lo storico e diplomatico Thanth Myint-U, poche ore dopo l’annuncio degli arresti, ha scritto sul suo account di Twitter:

“Si sono appena aperte le porte di un futuro molto diverso. Ho la sensazione che nessuno sarà davvero in grado di controllare ciò che verrà a partire da adesso. Il Myanmar è un paese inondato di armi, con profonde divisioni tra linee etniche e religiose, dove milioni di persone riescono a malapena a nutrirsi”.

Il colpo di stato evidenzia il carattere pretestuoso delle denunce di frode elettorale da parte dell’USDP, già peraltro smentite dai principali organismi nazionali e internazionali di supervisione e, alla luce degli ultimi avvenimenti, manifestamente dirette a creare un casus belli per la presa del potere da parte dell’esercito. Non sono peraltro del tutto chiare le motivazioni che avrebbero spinto il Tatmadaw a farsi carico direttamente dell’amministrazione del Paese, esponendosi a una prevedibile ondata di riprovazione e contestazione. Gli accordi tra governo civile e rappresentanti delle forze armate garantivano già a queste ultime il pieno controllo degli apparati di sicurezza dello stato, dei ministeri chiave (interni, confini e difesa) e dei principali assets economici, come da tradizione.

Lo spoglio della Birmania sotto le precedenti giunte militari era stato in un certo senso istituzionalizzato dai patti della transizione: la garanzia di maggiori diritti e libertà politiche in cambio del consolidamento dei privilegi dell’élite militare. Il tutto a spese delle minoranze etniche, Roinghya ma non solo, da sempre agnello sacrificale sull’altare degli equilibri del potere centrale: questa volta, però, con la complicità di Aung San Suu Kyi e del suo partito, dimostratisi piuttosto ambigui non solo su questa controversa questione ma anche in materia di censura della stampa e di Internet. Nel piatto delle trattative degli ultimi giorni sarebbe entrata anche la posizione personale del generale golpista Min Aung Hlaing, le cui ambizioni presidenziali sarebbero state respinte dalla NLD in virtù della contundente vittoria elettorale. Secondo alcuni osservatori, sarebbe stato proprio questo rifiuto a far inclinare la bilancia a favore dell’azione militare.

D’altra parte sarebbe ingenuo sottostimare l’influenza della Cina, che da almeno un ventennio alimenta l’economia nazionale con investimenti e tangenti di ogni tipo, e senza il cui beneplacito almeno implicito difficilmente l’esercito si sarebbe mosso. Risale a tre settimane fa l’ultimo incontro ufficiale tra Min Aung Hlaing – adesso al potere – e il ministro degli esteri cinese Wang Yi. Improbabile quindi che la notizia del golpe sia arrivata come un fulmine a ciel sereno a Pechino che, secondo quanto riferiscono alcune fonti, in via confidenziale avrebbe fatto sapere ai vertici dell’esercito di non ritenere del tutto campate in aria le loro rimostranze elettorali: un via libera tra le righe. Il Global Times (organo di stampa del regime cinese in lingua inglese) ha auspicato l’accordo “tra le parti” per il mantenimento “della pace e della stabilità”, mettendo in guardia le autorità birmane da “interferenze esterne”. Curioso richiamo ad una neutralità che, evidentemente, riguarda solo gli altri e che sembra confermare che la situazione attuale non risulta del tutto sgradita al Partito Comunista Cinese.

Prevedibile la reazione del Dipartimento di Stato americano che, per bocca del segraterio di Stato Blinken, ha intimato alla giunta di “tornare immediatamente sui suoi passi”, mentre è più cauta la posizione dell’India e del Giappone, entrambi partner commerciali di primo piano della Birmania, che si sono limitate ad una generica dichiarazione di principio a favore del processo democratico.

I prossimi giorni saranno decisivi per conoscere il futuro dei leader politici detenuti, mentre quello del Paese sembra purtroppo già scritto: un ritorno al passato improvviso ma non del tutto inatteso, in un certo senso insito nello compromesso istituzionale fra un apparato militare onnipotente e un governo semi-civile sotto tutela e spesso connivente con i crimini delle forze armate. La reazione popolare agli avvenimenti di ieri darà la misura del cambiamento politico e sociale che la Birmania ha sperimentato nell’ultimo decennio. Le elezioni di novembre hanno dimostrato che, nonostante tutto, i birmani appoggiano Aung San Suu Kyi e il suo partito e credono fermamente nel cammino democratico intrapreso, per quanto zoppicante. Vedremo se la forza delle armi riuscirà a mettere a tacere ancora una volta le legittime aspirazioni di una nazione che sembra condannata a non rialzare la testa.