Scomparso il conflitto di classe, che invano si tenta di rilanciare, soccorre il conflitto globale: neri contro bianchi, questi ultimi tenuti a vergognarsi di loro, a percepirsi tutti come robocop, a odiare l’istituzione poliziesca in quanto tale, a rinnegare cultura, valori, tradizioni, in una parola l’intero occidente, da sradicare, da essiccare nelle radici
Sinistra afasica e verbosa. Afasica in quanto verbosa, tante, troppe parole che non sostengono idee ma ipocrisie, false coscienze e false verità e alla fine non restano che le messinscene, l’ultima l’inginocchiatoio di massa in onore di George Floyd, il nero morto dopo che un poliziotto lo aveva immobilizzato con una presa micidiale per quasi 9 minuti. Come un virus, come uno di quei giochi di tessere che ne butti giù una e viene giù un plastico intero, a contatto, a catena in tutto il mondo ci si inginocchia per una pantomima che, con tutta evidenza, prescinde dalla memoria della vittima e assume i contorni dell’ennesimo manifesto ideologico: black lives matter, le vite dei neri contano, ma soprattutto conta la nostra. Come quella di una conduttrice italiana che ha organizzato la scena in diretta, con le luci giuste.
Le vite contano, ma conta di più la vanità nel segno del rilancio sovversivista: scomparso il conflitto di classe, che invano si tenta di rilanciare, soccorre il conflitto globale secondo intuizione di Toni Negri: neri contro bianchi, questi ultimi tenuti a vergognarsi di loro, a percepirsi tutti come robocop, a odiare l’istituzione poliziesca in quanto tale, a rinnegare cultura, valori, tradizioni, in una parola l’intero occidente, da sradicare, da essiccare nelle radici.
Le vite contano, ma non tutte allo stesso modo: giustamente Azzurra Barbato su Twitter ricorda Pasquale Apicella, ultimo agente italiano caduto nel tentativo di arginare una rapina di rom che lo hanno ammazzato con la macchina: nessuno si è inginocchiato, casomai l’avrebbero fatto per la “etnia debole”, come amano vederla. Contano, le vite dei neri? Non si direbbe se a difenderle sono i soliti miliardari hollywoodiani gonfi di stereotipi quanto di polvere, mentre altri neri procedono all’assalto dei forni, escono esaltati dalle catene di generi di lusso carichi di merce razziata. Hanno arrestato pure la figlia del sindaco di New York, Bill de Blasio, il Democratico, una con evidenti problemi, e il padre: sono fiero di mia figlia. Fiero di una casinista di lusso, figlia di un potente, uscita da un rehab, che imputa i propri fallimenti alla presunta supremazia persecutoria bianca. Quanti come lei?
Black lives matter, ma la frase finisce per significare più niente senza la cerimonia dell’inginocchiatoio. Chiedere scusa! A chi? In nome di che? Per ritrovarsi con la pelle chiara? Ma cosa sarebbe questo controrazzismo farneticante se non l’ennesimo mezzo subdolo, squallido, per riscrivere un ordine globale a misura di politicamente corretto, di antiamericanismo pavloviano, di marxismo di risacca come lo chiama Ryszard Legutko? Ieri c’era da vergognarsi di essere maschi bianchi, come li chiama quella provocatrice irritante che risponde al nome di Rula Jeabral. Oggi di essere bianchi tout court. Sempre di essere bianchi, occidentali e figli della cultura capitalista.
Ma è talmente chiaro che “le vite dei neri contano” se si possono strumentalizzare, se le puoi scagliare come una marea umana contro Trump, incredibilmente accusato perfino dell’omicidio del poliziotto violento Derek Chauvin; è talmente chiaro che gli antifà sono schiuma orchestrata, burattini i cui fili vengono tirati di lontano. Hanno scomodato di tutto in funzione di questo vittimismo globale, da Barack Obama a Luther King a Muhammad Ali. Ma Obama è stato il presidente pacifista che ha fomentato o permesso o sottovalutato guerre e terrorismi sciagurati; Luther King non ha mai predicato violenze di strada e assalti ai feticci del capitalismo – quello, casomai era Malcom X; e Muhammad Ali, che attraversò le vite di entrambi, sarebbe rabbrividito al cospetto di scene così miserabili. Ali ha difeso, con coraggio non scevro da furbizie e contraddizioni, l’orgoglio nero pagando di persona – e pestando altri neri erculei, spesso denigrandoli prima per disgregarli psicologicamente. Da nero a nero, i suoi insulti furono spesso razzisti, e crudelmente razzisti. Ma egli non fu mai meno che eroico e non si ridusse mai alla meschinità, motivo per cui anche i suoi stessi bersagli finirono per rendergli merito di una battaglia civile e di integrazione che nessuno seppe assumersi come lui.
Per favore, ristabiliamo il senso delle proporzioni e della realtà. Diciamo che non ha senso inginocchiarsi, umiliarsi come simboli di vergogna per il crimine compiuto da uno, lontano, che con la nostra “razza” non ha niente a che fare. E che nel vandalismo antifà eterodiretto e puntato al saccheggio, non c’è niente di dignitoso, né di onesto, né che “conti” davvero. E che chi lo appoggia, avendo finito le formule e gli slogan, è solo un Farfarello in cerca di visibilità, uno che si inginocchia perché le vite contano a cominciare dalla sua, per finire con la sua.