Workington è un collegio sconosciuto ai più nel nord-ovest dell’Inghilterra, contea della Cumbria. Da 101 anni il rappresentante dell’area a Westminster era un laburista. Il Labour considerava il seggio quasi suo per diritto. Finché il 12 dicembre Workington ha voltato le spalle a Jeremy Corbyn e al suo candidato votando per il candidato Tory, Mark Jenkinson. È stato proprio l’Uomo di Workington, che i media mainstream descrivono come un elettore normalmente disinteressato alla politica, amante del rugby, della real ale e generalmente leaver – favorevole all’uscita dello UK dall’Unione europea – a decidere queste elezioni. Così come a Workington, i Tories hanno sfondato nelle constituencies storicamente laburiste: a Peterborough, a Blyth Valley e a Sedgefield nell’ex collegio di Tony Blair, dove nel 1997 partì la marea del New Labour.
Proprio Tony Blair scrisse nelle sue memorie politiche intitolate The Journey che, avvicinandosi al partito Laburista negli anni ’70 e ’80 si era accorto del carattere inevitabilmente minoritario che avevano le idee del partito e i suoi simpatizzanti: intellettuali marxisti o fabiani, élite sindacali, gente che si approcciava al Labour senza porsi il problema di come vincere la guerra delle idee e conquistare la classe media britannica. Passata l’epoca di Michael Foot e consegnato alla storia Neil Kinnock, dopo il decennio della macchina elettorale da guerra del New Labour, il partito della sinistra inglese è caduto nella solita trappola dell’identity politics e dell’intellettualismo fine a se stesso con la novità delle star milionarie, che nei giorni precedenti alle elezioni hanno dato il loro endorsement a Corbyn: gli ex calciatori Gary Neville e James Carragher, il cantante Stormzy, l’attore Hugh Grant, non esattamente gente con un background da working class. Il candidato Tory a Workington, Jenkinson, era una persona molto simile a quegli elettori che alla fine lo hanno preferito al suo rivale laburista.
Da anni la sinistra si è rifugiata nei centri urbani delle grandi città, nel veganesimo e nella politica gender, nella ricerca spasmodica del maglioncino all’ultima moda per il pet e nei luoghi esclusivi di villeggiatura à la Capalbio, nel conformismo intellettuale di autori non certo all’altezza dei grandi pensatori e letterati del passato, nel pop e nella protesta identitaria fine a se stessa. L’ondata anti-establishment che ha colpito l’Inghilterra è stata, paradossalmente, intercettata dallo storico partito dell’establishment inglese, che ha puntato sul suo cavallo di battaglia più elettoralmente appealing agli occhi degli elettori. Il sentimento di revanscismo nei confronti dell’Europa, sfociato nella Brexit, ha distrutto il vecchio ordine che i media hanno definito neoliberal in favore di una politica più tradizionale fatta di nazioni, storia e identità condivise. Ad approfittarne però non è stato il Labour ma i Conservatori. Corbyn è stato troppo ondivago sul grande issue della campagna, la Brexit, puntando su un programma di radicale trasformazione del Paese che gli elettori hanno rigettato come un tuffo in un passato fatto di nazionalizzazioni, inefficienze, strapotere sindacale. Boris Johnson ha capito che doveva parlare a tutti e non sono ai simpatizzanti Tory; che bisognava schierarsi in favore della volontà popolare sulla Brexit; che doveva sfidare il Parlamento di Londra percepito come bloccato e inefficiente agli occhi degli elettori; che, oltre a parlare alle élite doveva trovare linguaggio, immagini e situazioni per intercettare i consensi degli elettori nei marginal seats. La sua è una vittoria della democrazia, dei principi del self-government e del senso d’orgoglio di una nazione che non si è arresa a Hitler e non si arrenderà di certo adesso a Juncker e Barnier o ai loro eredi. Corbyn ha parlato la lingua di una minoranza, Johnson quella che ha fatto grande il Regno Unito. Proprio a partire dall’Uomo di Workington.