La sinistra italiana in tutte le sue sfumature, dal Pd all’informazione compiacente, non può stare senza un “nemico numero uno” di turno, da demonizzare e mettere alla gogna. Evidentemente, da Craxi a Berlusconi, sino ad arrivare a Matteo Salvini, è sempre stato più comodo, per gli orfani di Berlinguer ed utili idioti collaterali, distrarre l’attenzione sul capro espiatorio del momento che impegnarsi in modo proficuo per qualcosa. È meno faticoso essere “anti” che “pro”, poiché è sufficiente fare la voce grossa ogni tanto e sprecare fiumi di parole, senza dover rendere conto di risultati concreti. Allo stesso tempo i sedicenti progressisti tendono ad aggrapparsi, sfiorando talvolta il ridicolo, a qualche “amico” dell’ultim’ora, salvo poi scaricarlo quando smette di essere utile alla propaganda strumentale. L’elenco di esempi in questo senso è lunghissimo, dall’ex-giovane missino Gianfranco Fini, divenuto successivamente una vittima della satrapia berlusconiana da salvare, passando per l’inconsapevole Checco Zalone, e giungendo infine agli sconclusionati pentastellati, trasformati in un batter d’occhio da eversivi a gente che studia, (Franceschini docet!).
L’allora truce Umberto Bossi, quando offrì alla sinistra un quadro politico insperato, ovvero la crisi del primo governo Berlusconi, divenne una costola di essa con tanto di autenticazione da parte di Massimo D’Alema. L’ex leader leghista sta tornando nelle grazie di tutto ciò che orbita attorno al Partito democratico. Bossi non ricopre più un ruolo da protagonista, complici l’età, i noti problemi di salute e i guai economico-giudiziari, ma quando può, critica le scelte dell’attuale Lega a guida salviniana, e tanto basta alla sinistra per offrire una tribuna al vecchio leone padano. Quanto va nella direzione opposta a quella di Matteo Salvini, che rimane temibile nonostante la mancata vittoria in Emilia Romagna, deve avere un risalto. E non importa se proprio il Senatur, nei suoi anni migliori, fosse decisamente più truculento e per molti aspetti estremista di Salvini. Chi accusa il leader odierno della Lega di aver imbarbarito il dibattito politico, e prova quasi tenerezza per il fondatore del Carroccio, forse ha già dimenticato il secessionismo padano, i 300.000 uomini pronti alle armi, le camicie verdi, il celodurismo e gli insulti alla povera Margherita Boniver. Secondo i canoni del politicamente corretto di oggi, che vede fascismo e sessismo ovunque, Umberto Bossi dovrebbe meritare la sedia elettrica. Invece, viene insignito della medaglia di anziano saggio da ascoltare, per il quale la Repubblica, non un giornale a caso, ritiene di concedere spazio per un’intervista in cui Bossi spara a zero naturalmente contro Salvini.
Il dramma della sinistra è tuttavia quello di incollarsi, come le cozze sugli scogli, a figure decadenti o decadute, le quali possono anche far discutere per qualche giorno in televisione o sui giornali, ma per varie ragioni non muovono nemmeno un voto. Nel caso della Lega è inutile ribadire come il consenso elettorale attuale sia frutto delle scelte della leadership salviniana, e ben poco delle vicende leghiste di oggi sia determinato dal capo storico e fondatore. La nostalgia di Bossi per quella Lega che si richiamava anzitutto al nord Italia, anche tramite la propria denominazione, può essere umanamente comprensibile, ma nemmeno all’ideatore del Carroccio dovrebbe sfuggire un dato di fatto evidente a tutti. La sua Lega Nord, che si rivolgeva soltanto ad una parte geografica del Paese, non avrebbe mai potuto essere il numero uno di una coalizione di centrodestra o comunque di un’alleanza alternativa alle sinistre, mentre per una Lega a grandezza nazionale si sono aperti, e se ne possono aprire ancora, spazi senza dubbio più vasti. Ci può essere qualcuno con ancora il magone verso la vecchia Lega in camicia verde, ma, a differenza di quanto sostiene Bossi attraverso la Repubblica, siamo, in termini di voti e popolarità, sugli stessi livelli di quei missini che nell’ormai lontano 1995 non accettarono la svolta di Fiuggi.