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Breve storia triste della libertà di espressione in Italia: il “caso Gervasoni”

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La libertà, scriveva Piero Calamandrei, è come l’aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.

E non c’è dubbio alcuno che i nostri sensi, sollecitati e stressati da un anno di restrizioni, di limitazioni negli spostamenti e nel vivere, nell’assaporare la pienezza delle libertà che ci sono riconosciute, riconosciute e non concesse come invece pretenderebbero alcuni, dal dato costituzionale, siano ancora più propensi a cogliere la intima drammaticità di qualunque giro di vite.

Il caso: vengono indagate e perquisite le abitazioni di undici persone, dipendenti amministrativi, studenti, due giornaliste free-lance e un professore universitario, Marco Gervasoni, il cui nome le principali testate hanno deciso di strombazzare nell’etere, nemmeno fosse la famigerata e sarcastica copertina del quotidiano satirico Il Male che titolò “È il capo delle BR”, sopra una foto di Ugo Tognazzi in manette.

L’accusa è grave. Vilipendio al presidente della Repubblica, reato punito in maniera assai severa, con una pena oscillante da uno a cinque anni di carcere, dall’articolo 278 del nostro codice penale: si tratta di una lunga indagine che ha preso avvio nel 2020, originata da quelle che apparirebbero come offese al decoro del presidente della Repubblica, più o meno coordinate.

Non è la prima, ovviamente. Già nel 2018 si era indagato a lungo, paventando anche un attacco coordinato da troll russi. E la Russia compare anche in questo caso, sia pure sotto la fisionomia dell’equivalente russo di Facebook, la piattaforma VKontakte, frequentata da alcuni degli utenti sottoposti a perquisizione ed indagine.

Naturalmente commentare indagini in corso è sempre delicato perché l’acqua è increspata, i dettagli che filtrano sono sempre frammentari e parziali, e però viviamo anche in una epoca che spesso i processi li celebra proprio sui mass media e che, sovente, vede alcune redazioni di giornale più informate dei tribunali stessi.

E così i dettagli, va detto, non sono proprio parchi né pochi: alcuni giornali producono ricostruzioni analitiche, minuziose, e più ci si addentra nella lettura più si rimane stupefatti, e a tratti indignati. Gervasoni, professore di storia contemporanea all’Università del Molise, avrebbe non solo offeso il presidente della Repubblica ma secondo quanto riportato e non ancora confermato, per gli inquirenti avrebbe istigato altri a commettere non meglio precisati reati.

Si tratta di fattispecie puramente ideali, concettuali, legate ad opinioni, per quanto aspre e che pure possono portarti ad avere, la mattina presto, quando ancora il sole pigro si attarda a salire in cielo, casa invasa dai reparti speciali delle forze dell’ordine, quelli specializzati in blitz anti-terrorismo o contro la criminalità organizzata.

Solo che nel caso di specie, non sei accusato di militare tra le fila dell’Isis o della Sacra Corona Unita ma di aver scritto, su Twitter, delle frasi latamente ingiuriose nei confronti del presidente della Repubblica.

L’articolo 278 del codice penale è retaggio, chiaramente, di una epoca tendenzialmente autoritaria, e non solo perché il codice penale è di epoca fascista: ma perché il capo dello Stato cui faceva riferimento l’articolo quando venne inserito nel testo codicistico era quello del sovrano. E c’è in effetti un forte aroma monarchico e sacrale in questa disposizione che distingue in maniera quasi ontologica tra un qualunque individuo, per quanto potente, e appunto il capo dello Stato, manifestazione incarnata questi di un potere assurto a livelli metafisici, quasi ad echeggiare la teorizzazione di Kantorowicz sui due corpi del sovrano.

Molto chiaro e intellettualmente onesto il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti, che più liberale e libertario di tanti liberali feticisti dello stivale del potere ha definito la vicenda come “ridicola”, criticando poi in maniera assai precisa e puntuale la fattispecie di reato contestata, reliquia di un passato autoritario e che come tale stona con una società libera.

D’altronde la matrice autoritaria della norma ci è rimandata dalla sua omologa francese, contenuta nell’articolo 26 della Legge sulla libertà di stampa, del 29 Luglio 1881 (sì, avete letto bene, 1881): eppure questa norma ha dato vita ad una ampia casistica giurisprudenziale della CEDU, la quale l’ha sottoposta a penetranti critiche e ha ritenuto che la stessa molte volte si sia tradotta in una evidente ingerenza del potere pubblico repressivo in danno del diritto di critica, per quanto severo, e della libertà di espressione, da ultimo con la sentenza della V sezione, del 14 marzo 2013, ric. 26118/2010, Eon v. France.

In Italia la peculiarità della norma è sopravvissuta persino alla depenalizzazione che nel 2006 ha interessato tutte le altre forme esistenti allora di vilipendio, tutte ad eccezione di questa che ha continuato a integrare una fattispecie di reato. Nonostante vari tentativi di rivederne e limitarne la portata, proprio nella generale considerazione della sua vetustà e della sua problematica compatibilità con un maturo ordinamento liberale e democratico, ad oggi nulla si è riuscito a fare.

Quel che lascia sgomenti nella vicenda è la sua caratura del tutto ideologica: non ci sono evidenze di atti preliminari ad azioni violente o eversive, ma tendenzialmente tutto sembra risolversi in critiche, per quanto dure, o insulti. Nulla che non possa risolversi con azioni civili, al limite con il ristoro dei danni patiti e nel caso più grave con una denuncia per diffamazione, come avverrebbe nei confronti di qualunque cittadino che si assuma leso da affermazioni di altri.

Ed invece qui abbiamo indagini telematiche, complesse e costose, blitz e perquisizioni domiciliari, come se la congrega degli indagati fosse una associazione: si leggono, nelle ricostruzioni giornalistiche, teoremi abbastanza sconcertanti, se confermati dalle carte d’accusa.

Gervasoni sarebbe divenuto la stella polare di queste offese, anche per i suoi contatti su altri social, il citato VKontakte ad esempio, con esponenti dell’area sovranista: contatti che però, nei fatti, sembrano essere le amicizie strette a livello virtuale o addirittura il mero avere dei follower ‘discutibili’ su Twitter.

E in quanto alla collocazione ‘russa’ di quel social, più che una scelta geopolitica essa sembra la fisiologica risposta alla politica oggettivamente censoria di molte piattaforme social occidentali contro conservatori e sovranisti, andata in scena negli ultimi anni, cui molti risposero migrando su lidi più accoglienti senza che la cosa dovesse tradursi per forza di cose in adesione alla agenda di Putin.

In quanto ai follower discutibili o estremisti come chiunque, dotato di un minimo di familiarità con il social di Jack Dorsey dovrebbe sapere, il numero dei follower molto spesso può essere assai elevato, migliaia, decine di migliaia, persino milioni di follower nel caso dei personaggi più in vista: qualcuno davvero può pensare che una persona si controlli tutti i follower, come se essere seguiti dal profilo ‘sbagliato’ potesse integrare chissà quale delitto?

Questa finisce con il suonare come una sorta di preoccupante responsabilità oggettiva, contrastante con i principi elementari del nostro diritto penale: la costruzione di un profilo ‘criminale’ che scandaglia gusti, amicizie (per quanto virtuali), le reti relazionali, addirittura l’area di riferimento, dover rispondere persino di commenti non propri ma dei propri commentatori, come se avere una determinata opzione ideologica o concettuale potesse integrare di suo una qualche vocazione a delinquere o ad essere socialmente pericolosi.

Anche il rilievo mediatico e la esposizione ad una sorta di gogna pubblica, in una fase che è ancora di mere indagini, con una realtà tutta da verificare e accertare, la dice lunga assai: Gervasoni si è visto la foto pubblicata sui principali organi di stampa, nemmeno fosse il leader e mentore ideologico di chissà quale gruppo eversivo.

Ritengo altamente discutibili il suo utilizzo dei social e molte delle cose che ha scritto e scrive. Ed appunto, il centro della questione a mio avviso sta proprio in quell’aggettivo: discutibili.

Le argomentazioni, le critiche, anche perché no le eventuali oscenità lessicali o concettuali dovrebbero essere controbattute, parimenti criticate, sottoposte a vaglio e scrutinio concettuale e non dovrebbero avere come sbocco l’irruzione delle forze dell’ordine dentro casa o peggio la prospettiva di un processo, ovvero l’ingerenza radicale del potere pubblico che si spinge a sindacare se una affermazione possa finire per integrare gli estremi di una forma di psico-terrorismo per mezzo digitale.

Come dice Ron Paul, che pure negli Stati Uniti può muoversi nel perimetro costituzionale di una libertà di manifestazione del pensiero a maglie assai larghe quale quella garantita dal I Emendamento, non abbiamo la libertà di espressione per parlare del tempo, ma per poter dire cose controverse e a volte feroci: perché il progresso della civiltà, il dibattito pubblico, per quanto acceso, si nutrono anche della conflittualità e dei punti di vista scomodi.

E quando ci battiamo per la libertà, quando ne reclamiamo la essenzialità e la purezza lo dobbiamo fare per tutti, senza doppi standard, anche se questo significa prendere posizione a favore di posizioni concettuali che ci ripugnano. Altrimenti, se dovessimo difendere solo quelli che la pensano come noi sarebbe un po’ troppo facile. Facile e ipocrita.