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Brexit, bando ai tatticismi. Conversazione con Daniele Capezzone

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Riprendiamo su Atlantico la conversazione di Emilio Minniti con Daniele Capezzone per il sito Giustizia e Investigazione.

Parliamo di Brexit con l’On. Daniele Capezzone, vice presidente di ACRE e autore, assieme a Federico Punzi, del libro “Brexit. La sfida”. “Quando l’Inghilterra dovrà scegliere tra la terraferma e il mare aperto, sceglierà sempre il mare aperto”. Con queste parole il Generale De Gaulle inquadrava la questione della presenza inglese all’interno del processo di costituzione europea.

EMILIO MINNITI: Cosa può essere, o tornare ad essere, il Regno Unito al di fuori del progetto europeo, e cosa può diventare l’Europa senza l’UK?
DANIELE CAPEZZONE: Sorridendo, si potrebbe dire che i ripetuti no di De Gaulle all’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea di allora non erano un oltraggio ma (inconsapevolmente) un buon consiglio ai britannici: state fuori da questo palazzo europeo destinato a andare in fiamme. Boutade a parte, Brexit è una sfida per entrambi: per il Regno Unito, che dovrebbe viverla come una grande opportunità (non in termini di riduzione del danno, come purtroppo fa per ora la signora May), e per l’Ue, che dovrebbe cogliere l’occasione per ripensarsi e mettersi in discussione, anziché per blindarsi e cercare di “punire” i britannici.

EM: A che punto sono le trattative sulla Brexit e quale esito finale prevede?
DC: Dell’atteggiamento Ue, ho già detto: incredibile, provocatorio, offensivo, a partire dai leak sui colloqui con l’Uk (pare ne sia stato responsabile l’ineffabile Selmayr, il badante merkeliano di Juncker diventato capo della burocrazia Ue con procedure truffaldine). Purtroppo però sta sbagliando molto anche il Governo May: per timidezza, per incertezza. Se scegli Brexit, poi devi percorrere una via thatcheriana: negoziato duro, tagli di tasse e burocrazia per attrarre risorse e investimenti, preparare l’ipotesi “no deal” per trattare con l’Ue mettendo la pistola sul tavolo.

EM: Il braccio di ferro negoziale con l’UE ha messo sotto pressione il Partito Conservatore inglese, provocando le dimissioni di due ministri di peso, quello degli esteri Boris Johnson e quello per la Brexit David Davis. Quali equilibri vede profilarsi nel medio termine all’interno della destra d’oltremanica?
DC: Mi pare pacifico che si sia aperto un leadership contest tra i Tories, il che è un bene. In genere, e lo dico da sincero ammiratore di quel partito e di quella storia, quelle sfide sono anche una gara di idee, di prospettive, di proposte. Farò il tifo affinché si riproponga una linea orgogliosamente e classicamente thatcheriana. La signora May, pur azzeccando una diagnosi sociale (il desiderio di protezione di molti elettori), è purtroppo una sincera “credente” nel ruolo dello stato, del pubblico: sembra più una cristiano-democratica europea-continentale che una conservatrice anglosassone, per alcuni versi.

EM: Ampliamo lo scenario, l’avvento di Trump ha modificato molti dei punti chiave della politica estera dell’Amministrazione Obama. La Gran Bretagna sembra essere stata presa in contropiede su alcuni importanti dossier, Iran e Cina su tutti, senza dimenticare il cambio di linea rispetto al sostegno alla Fratellanza Mussulmana. Siamo di fronte ad una divaricazione di prospettive all’interno dell’area atlantica?
DC: Per un verso, è totalmente comprensibile che, se scegli Brexit, il tuo sguardo commerciale debba rivolgersi in tutte le direzioni. Se vuoi una Global Britain, nessun interlocutore deve essere precluso. Per altro verso, sarebbe comunque consigliabile, a mio personale avviso, rafforzare prioritariamente – direi come premessa di ogni altra attività – la Special Relationship atlantica. Inutile illudersi, come fa un pezzo di classe dirigente inglese: dalla politica estera a quella fiscale, occorre divergere, non convergere con gli standard Ue. Fermo restando che è interesse di tutti (in primo luogo di Uk e Usa) che l’Uk resti il miglior vicino di casa dell’Ue, in particolare sulle questioni dell’antiterrorismo e della difesa, sotto l’ombrello Nato.

EM: Sulla questione russa, viceversa, il dissiparsi della cortina fumogena del Russia-gate ha evidenziato come le posizioni di Usa e Uk non siano conflittuali, come ipotizzato dalla grande stampa in un primo tempo. Trump sembra disposto a concedere uno spazio di manovra a Putin in funzione anticinese, e non certo in Europa. Cosa pensa al riguardo?
DC: Capiremo meglio nei prossimi mesi, il quadro non è ancora chiaro. Trump vuole sinceramente un reset con Mosca, non vuole certo “regalarla” a Cina e Iran, ma è consapevole del fatto che questo debba avvenire con un’America sempre più forte. Per dialogare, devi tirare la corda fino al massimo punto possibile. E non vedo (per fortuna) un Trump desideroso di fare concessioni al buio a Putin. Questo dovrebbe indicare la via anche al Governo italiano: stare con Washington, e in questo quadro – poi, solo poi – dialogare anche con Mosca. Non viceversa.

EM: Venendo alle questioni di casa nostra, pensa che la nuova collocazione della Gran Bretagna nel quadro geopolitico internazionale possa rendere conveniente rafforzare le relazioni con l’Italia?
DC: Lo penso da anni. La mia opinione è che l’Italia dovrebbe essere parte di un “anello anglo-mediterraneo-est europeo” che, appunto mettendo insieme paesi anglosassoni, paesi mediterranei come noi, e paesi dell’Est Europa (a partire dal gruppo di Visegrad) faccia da contrappeso e da riequilibrio rispetto allo strapotere dell’asse franco-tedesco, a cui troppi governi italiani del passato anche recente si sono inchinati.

EM: E’ ipotizzabile una convergenza a breve termine tra Italia e Regno Unito sulle principali questioni di politica estera nell’area del nordafrica e dell’Africa sub-sahariana?
DC: Ovvio che il peso degli interessi energetici (petrolio e gas) e dei differenti player aziendali ci sia, non lo sottovaluto. Anche qui però tendo a dire sì, includendo ovviamente la decisiva partnership Usa: sempre per evitare che la Francia di Macron pensi di avere campo libero e di trasformare il Mediterraneo nel suo mare di casa. Prendendo per sé petrolio e gas, e lasciando a noi gli sbarchi.