Brexit è viva, ora tocca ai Conservatori dimostrare che sono capaci di risorgere per realizzarla

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Il giorno dopo il trionfo del Brexit Party di Nigel Farage alle elezioni europee, nel Regno Unito si è passati alla conta dei voti per capire se, sommando le diverse percentuali raccolte dai partiti, a vincere fosse stato il fronte del Leave o quello del Remain nel grande rompicapo che tiene banco nell’isola – che a questa tornata elettorale non avrebbe nemmeno dovuto partecipare. L’interpretazione più facile e semplicistica attribuisce un vantaggio al secondo, raccogliendo i voti per i Liberaldemocratici, i Verdi, lo Scottish National Party e quelli per i Laburisti, che però soffrono della stessa malattia che ha colpito i Conservatori, usciti con le ossa frantumate dalle urne: un accennato bipolarismo sulla questione europea peggiorato dalle strategie delle rispettive classi dirigenti.

Approfondendo con più attenzione lo scenario che si è palesato, si intuisce che la voglia di Brexit è ancora viva nonostante gli ultimi tre anni trascorsi tra trattative, teste saltate, cambi ai vertici e continui rinvii. Basterebbe per esempio aggiungere al 30,5 per cento raggiunto dal Brexit Party l’8,8 per cento dei Tories e il 3,5 di Ukip per rivedere le somme – e non è detto che all’interno di quel 13,7 per cento dei Laburisti si ritrovino solo le preferenze di chi vorrebbe rimanere nell’Unione europea. Farage è riuscito a drenare voti sia a destra che a sinistra, come mostrano le analisi dei flussi, ma qualcuno è rimasto fedele alla causa, optando per i due partiti più tradizionali. Brexit è una questione trasversale ed è destinata a restarlo.

Cosa accadrà da qui al 31 ottobre dipende nuovamente da quanto succederà a Westminster, specialmente a partire da giugno, dopo che Theresa May si sarà ufficialmente dimessa da leader conservatore e da primo ministro. Si riapriranno la danze per individuare chi avrà il compito di portare a compimento l’operazione e il numero dei partecipanti al ballo sta crescendo. Boris Johnson è il nome con maggiore seguito mediatico: non ha avuto nemmeno bisogno di ufficializzare la sua candidatura, ma ha preferito mettere in chiaro sin da subito che con lui a Downing Street il Regno Unito uscirà dall’Ue secondo i termini fissati, con o senza accordo. Ed è infatti attorno alla questione no deal che si è incentrato il dibattito sin dalle prime battute.

L’altro favorito, Dominic Raab, ha dichiarato che nelle sue intenzioni la nazione dovrebbe uscire senza alcun accordo per non doversi piegare alle eccessive richieste di Bruxelles, per poi avviare nuove trattative commerciali con il blocco comunitario da paese esterno. Ironia della sorte, la firma di Dominic Raab compare nella lettera con la quale la May aveva siglato e presentato al Parlamento britannico il Withdrawal Agreement lo scorso novembre: Raab ai tempi ricopriva il ruolo di Secretary of State for Exiting the European Union, salvo poi dimettersi e non votare l’accordo. Idea decisamente opposta quella avanzata da Jeremy Hunt, il ministro degli Esteri, che vorrebbe che i Brexiteers più duri e puri partecipassero direttamente alle trattative con l’Ue.

E poi c’è il terzo incomodo tra Johnson e Raab, ovvero Michael Gove: su di lui pesa il “tradimento” del giugno 2016 ai danni del primo che aprì la strada alla vittoria della May, ma può contare su un forte sostegno all’interno del partito. Il più pragmatico del gruppo, come segnalavamo su Atlantico, quello fino ad oggi più governativo e forse in grado di tenere unite le due anime dei Conservatori su Brexit, ma se da una parte le pugnalate alle spalle sono un leit motiv delle battaglie per la leadership Tories, dall’altra ci sono anche altri concorrenti che potrebbero contribuire a mischiare le carte.

Portare a compimento Brexit e consentire a Westminster di riguadagnare la fiducia agli occhi di un’opinione pubblica delusa e arrabbiata: sono i due gravosi compiti in palio. Certo il dibattito tra i diversi contendenti è un’occasione più unica che rara di ridare vigore ai Conservatori che altrimenti rischiano di scomparire dalla cartina politica. Farage, sull’onda del successo, ha annunciato che il Brexit Party parteciperà anche alle prossime elezioni legislative: gli scenari al momento non ne fanno presagire di anticipate, quindi i Tories hanno il tempo di rimettere mano alla loro agenda e dedicare le energie anche alle questioni interne (sicurezza, infrastrutture, politiche abitative e fiscali), provando pure a rispolverare alcuni temi thatcheriani, come quello sul ruolo e sulle dimensioni della macchina statale, e a riconsiderare Brexit come l’opportunità di dare sfogo ad una Global Britain.

Conta i danni anche Jeremy Corbyn: il Labour Party ha perso consensi rispetto alle Europee di cinque anni fa e prima o poi dovrà venire allo scoperto sulla questione referendaria: se infatti la pasionaria Diane Abbott ha affermato che i laburisti vorranno sottoporre qualsiasi forma di accordo all’approvazione degli elettori, la collega Lisa Nandy, deputata per il seggio di Wigan, le ha fatto notare che l’esito sarebbe quello di un sostegno ad un’uscita senza accordo dall’Unione, un risultato esasperato dal senso di tradimento che molti elettori laburisti per il Leave percepiscono “di fronte a figure di spicco che richiedono un secondo referendum prima ancora che si sia tentato di dare seguito al primo”.

Farage si sfrega le mani.

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