Alla vigilia del voto della Camera dei Comuni sull’accordo di divorzio negoziato dal governo May con Bruxelles, pubblichiamo ampi estratti dell’articolo “Tagliando alla Brexit: gli errori di Londra e la miopia dell’Unione europea”, che troverete nell’edizione ebook di “Brexit. La Sfida”, che sarà disponibile da questa settimana nei principali store online
Sebbene la sorte dell’accordo di divorzio dall’Ue negoziato dalla premier britannica Theresa May con Bruxelles sia ancora incerta, così come incerti appaiono gli scenari che si schiuderanno dopo il voto di gennaio ai Comuni, e avvolto nella nebbia del Canale anche il futuro delle relazioni Uk-Ue, in realtà i nodi della Brexit stanno lentamente venendo al pettine. Tutti ne erano consapevoli fin dall’inizio, a parole: il maggior danno è l’incertezza. Eppure, tutti gli attori sembrano aver lavorato meticolosamente per mantenere il massimo livello di incertezza. A poche settimane dal 29 marzo 2019, non ci sono ancora punti fermi. Con Daniele Capezzone avevamo scelto “Brexit. La Sfida”, ormai un anno e mezzo fa, come titolo del nostro libro, a indicare come il voto dei britannici del 23 giugno 2016 avesse avviato un processo (e non determinato un esito) non destinato inevitabilmente al successo o al fallimento, ma aperto all’uno e all’altro: una sfida, appunto, per entrambe le parti. Il Regno Unito rischia oggi di non predisporsi a cogliere le potenzialità della Brexit, che un po’ vagamente sono riassunte nell’idea, accarezzata in passato dalla stessa May, di “Global Britain”. Per “vincere” la Brexit, infatti, Londra dovrebbe liberarsi dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Ue, riprendere il pieno controllo delle sue politiche commerciali e dei suoi confini, ma al tempo stesso aprirsi al mondo (e alla stessa Europa) più di quanto non lo sia oggi, e adottare politiche che accrescano la competitività della sua economia.
Invischiata in un estenuante negoziato, non sta facendo nulla di tutto questo. La premier Theresa May ha commesso errori fondamentali. Essendo una remainer (sebbene tiepida e defilata durante la campagna referendaria), avendo quindi scarsa convinzione dei possibili vantaggi della Brexit, il suo approccio ai negoziati è stato quello del civil servant che esegue il volere della maggioranza dei suoi cittadini cercando di limitare il più possibile i danni di una scelta ritenuta nella sostanza sbagliata. Ma la logica della mera riduzione del danno, oltre a indebolire ulteriormente una posizione negoziale già resa fragile dalle disposizioni dell’art. 50 del Trattato di Lisbona, ha impedito al governo e alle classi dirigenti del Paese di ragionare su una visione post-Brexit di lungo termine e di predisporre piani che potessero fungere da bussola, da guida, nei negoziati con Bruxelles.
Il rinvio del voto sull’accordo, dall’11 dicembre a gennaio, sembra un espediente per poterla tirare in lungo il più possibile, scavallando la pausa natalizia, così da costringere i Comuni a ratificarlo, essendo ormai la data del 29 marzo troppo vicina per qualsiasi alternativa. Il solo argomento a sua difesa, infatti, per la premier stessa, è che le alternative sono peggiori: no deal o no Brexit, ha minacciato. E d’altronde, come può la May pensare ancora di sottoporre ai Comuni un accordo che aveva spavaldamente presentato come il “migliore possibile”, ma che poi, rinviando il voto e volando a Bruxelles per ottenere correzioni dell’ultimo minuto, ha esplicitamente riconosciuto essere “non sufficiente” proprio sul nodo dirimente, e principale argomento dei suoi critici – il meccanismo di backstop?
“Brexit means Brexit”, aveva assicurato. “Nessun accordo è meglio di un cattivo accordo”, aveva aggiunto. Eppure, il suo accordo prefigura un rinvio sine die della Brexit, mette il Regno Unito al guinzaglio di Bruxelles a tempo indefinito, in una condizione che molti hanno definito di “vassallaggio” verso l’Ue, un “tradimento” dell’esito referendario. Un “Remain-minus”, secondo The Spectator. Londra resterebbe infatti soggetta alla legislazione comunitaria e alla Corte europea di giustizia, senza poter influenzare la politica europea, non avendo più diritti di voto. Intrappolata nell’unione doganale, quindi soggetta alle politiche commerciali e ai dazi decisi dall’Unione, ovviamente senza la libertà di concludere accordi commerciali con Paesi terzi, una delle opportunità della Brexit.
Una condizione di evidente subordinazione che ci starebbe anche, nella logica di un periodo di transizione, quindi temporaneo, ma che diventa inaccettabile se la clausola di backstop prevista sulla questione del confine nordirlandese non prevede alcun meccanismo di recesso, rendendo quindi indefinita la durata di tale condizione. Un unicum nei rapporti internazionali di oggi: un accordo da cui una delle parti non può recedere. Un tale contratto tra privati sarebbe nullo. Se l’Ue concedesse a Londra ciò che si prevede in qualsiasi accordo internazionale, e che concede a tutti i suoi partner commerciali, una break clause che le consentisse una via d’uscita a certe condizioni, l’accordo avrebbe alte probabilità di essere approvato dai Comuni.
Le rassicurazioni secondo cui nemmeno per l’Ue il backstop rappresenterebbe una soluzione ideale lasciano il tempo che trovano, dal momento che i 27 ne trarrebbero solo vantaggi. Che sia temporaneo dipende non da una deadline, ma dalle capacità negoziali della May e dalla generosità europea, che alla luce di questi due anni non si possono certo dare per scontate. L’effetto del backstop nordirlandese sui futuri negoziati è di rimuovere ogni incentivo dei 27 a trattare seriamente un accordo. Basterebbe il veto di uno qualsiasi di loro – la Francia sulle zone di pesca o la Spagna su Gibilterra – e il Regno Unito resterebbe nella condizione di subordinazione, avendo già speso le sue leve (come il conto da 39 miliardi di sterline), senza danno alcuno per i 27.
Un accordo a tal punto penalizzante che molti brexiteers lo ritengono peggiore che restare nell’Unione. Daniel Hannan, per esempio:
“Theresa May è tornata con un accordo che mantiene gli aspetti peggiori della membership e ne scarta i potenziali vantaggi. Invece di fare come la Svizzera – lasciare l’unione doganale mantenendo pezzi di mercato unico – finiremo per restare nell’unione doganale e lasciare il mercato unico. In pratica, danneggeremo il nostro commercio con i 27, allo stesso tempo rendendo impossibili accordi commerciali con chiunque altro. Questo accordo produce un esito peggiore sia del rimanere nell’Ue sia dell’uscirne”.
L’accordo è “il peggio di tutti i mondi” anche per l’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Lord Mervyn King, che in un intervento su Bloomberg ha ricordato come in altri due momenti nell’ultimo secolo la classe politica abbia “deluso” il resto del Paese: con l’appeasement negli anni ‘30 e quando negli ‘70 l’economia britannica era “la malata d’Europa”. In entrambe le circostanze il Paese si è salvato dalla rovina per il rotto della cuffia grazie a una “rivoluzione”, a un cambiamento radicale a Downing Street (Churchill e Thatcher). Oggi la sfida è simile. “Ci sono argomenti per rimanere nell’Ue e argomenti per lasciarla. Ma non ce ne sono di sorta per rinunciare ai benefici della permanenza senza ottenere i benefici dell’uscita”, come sta proponendo il governo May, con un accordo che “concede all’Ue il diritto di imporre leggi sul Regno Unito indefinitamente e un veto sulla cessazione di questa condizione di feudo”. Lasciare l’Ue “non è la fine del mondo”, come non è la “terra promessa”, conclude King, ma “il Paese ha diritto ad aspettarsi qualcosa di meglio che un pasticciato impegno a una subordinazione permanente alla quale il Regno Unito non può sottrarsi senza il consenso dell’Ue”.
Secondo Mervyn King, subito dopo il referendum sarebbero dovuti iniziare i preparativi per l’uscita secondo le regole del Wto, come “piano B”, mentre “la pretesa del governo che ogni cosa potesse essere rimandata finché un immaginario accordo di lungo termine potesse essere negoziato, nel migliore dei casi è stata naïf”, e comunque si è dimostrata “disastrosa”. Una “incompetenza su scala monumentale”. D’altra parte, l’Ue è maestra nel far leva sulle tensioni politiche interne agli stati per forzarli a muoversi nella direzione desiderata (qualcosa che abbiamo visto all’opera anche nelle trattative sulla manovra di bilancio italiana). E così è stato con la questione del confine nordirlandese. Da Downing Street è uscita ogni sorta di segnale di debolezza. Dietro i proclami appariva drammaticamente evidente alla controparte europea come a Londra non vi fosse alcun preparativo per un no deal, né una visione post-Brexit per il Paese e un serio piano per realizzarla. Il bluff veniva così scoperto: il Regno Unito aveva disperatamente bisogno di più tempo. La deadline del 29 marzo 2019 rappresentava già un enorme svantaggio negoziale, l’assenza di piani ha addirittura aumentato la leva di Bruxelles, che ha così potuto dettare le sue condizioni.
Ora, il tentativo della premier di mettere Westminster alle corde, facendo votare il suo accordo all’ultimo minuto, per forzarne l’approvazione più per mancanza di alternative che per convinzione, rischia di fallire, facendo schiantare contro un muro il suo governo, il suo partito e il Regno intero. Viene il sospetto, con il senno di poi, che in fondo fosse esattamente ciò che la premier May, da remainer, voleva: farsi mettere in un vicolo cieco per far ingoiare l’accordo a casa. Evitare, di fatto, una vera Brexit, in attesa che maturassero le condizioni per un ripensamento. “Per la prima volta – ha scritto Hannan – comincio a pensare che la Brexit non ci sarà. E se accadrà, sarà nei termini dei peggiori aspetti dell’appartenenza all’Ue”. E questo a suo avviso “distruggerà la democrazia britannica come la conosciamo”. Il Regno Unito, patria dell’autogoverno rappresentativo, verrebbe visto “come una nazione che ha provato a recuperare la sua indipendenza senza riuscirvi”. “Il più partecipato voto popolare della nostra storia verrebbe tradito” e il Partito conservatore “potrebbe non riprendersi mai”.
Un altro errore della May è stato quello di credere che i negoziatori e i leader Ue l’avrebbero compresa e sostenuta nelle fasi decisive, in quanto loro per primi interessati ad avere a Downing Street una premier moderata e pragmatica, favorevole ad una soft Brexit, se non ad una “BRINO” (Brexit in name only). Si sbagliava: non hanno avuto alcuno scrupolo ad umiliarla e a farla tornare a mani vuote a Londra, come già fecero con Cameron, indebolendola forse in modo irreversibile agli occhi del suo Parlamento e dell’opinione pubblica.
Questo perché, e veniamo agli errori dell’Unione europea, da subito l’approccio della Commissione e dei 27, o almeno degli stati membri più influenti, Francia e Germania, è stato punitivo e vendicativo. Prevedibile, fisiologico, si dirà, come in un divorzio non ci si potrebbe aspettare nulla di diverso da un partner che si sente tradito. Ma ciò nondimeno miope e autolesionista. Tirando troppo la corda, l’Ue potrebbe aver “bruciato” la May e con essa le possibilità di una soft Brexit. Volendo infliggere i maggiori danni possibili al Regno Unito, rischia ora di infliggerne anche a se stessa in uno scenario no deal.
Ogni compiacimento degli euroentusiasti per le difficoltà britanniche è quindi fuori luogo. Primo, perché se anche Londra dovesse ingoiare il rospo, questo accordo sarà comunque motivo di una dannosa conflittualità tra le due sponde della Manica. Secondo, perché il temuto cherry-picking è destinato a rientrare dalla finestra, le famose “quattro libertà” sono già state spacchettate: la fine della libertà di circolazione delle persone è infatti l’unico aspetto della Brexit che la premier britannica è riuscita a portare a casa nell’accordo di divorzio. Terzo, scambiare l’accordo che May e Bruxelles sono stati capaci di raggiungere per il “miglior accordo possibile”, anzi l’unico, e dunque pretendere che costituisca la prova che la Brexit ha fallito, o che semplicemente fosse irrealizzabile, rischia di rivelarsi un terreno molto scivoloso.
Certo, l’obiettivo dell’Ue fin da subito non è stato quello di assicurare un divorzio ordinato e porre le basi per buone relazioni future, ma fare di tutto – mobilitando tutte le sue istituzioni, per ultima la Corte di giustizia, facendo leva sulle divisioni politiche interne al Regno Unito – per costringere Londra a revocare la Brexit, o almeno per dimostrare quanto sia difficile e costoso, se non impossibile, uscire dall’Unione, dissuadendo così altri stati membri dal compiere questa scelta. Ma per dimostrare che la Brexit è un fallimento, una sciagura per il popolo britannico, bisogna permettere che accada davvero, che l’uscita sia effettiva, e poter concludere che si stava meglio quando si stava dentro. Questo accordo invece rischia solo di rinviare o sabotare la Brexit, offrendo l’alibi del tradimento della volontà degli elettori.
Attenzione: c’è una differenza fondamentale tra un rapporto da cui è possibile uscire – per quanto complicato e costoso, per la selva intricata di trattati e accordi sedimentati nell’arco di decenni – e uno da cui alla prova dei fatti sia impossibile recedere. Che idea ci si può fare di un simile rapporto? L’impossibilità di uscire dall’Ue rischia di dire più sulla natura “imperiale”, illiberale e non democratica del progetto europeo che sulla giustezza o meno della scelta compiuta dalla maggioranza dei cittadini britannici nel giugno 2016.
Siamo così sicuri che le difficoltà e la paura li convinceranno a cambiare idea, o piuttosto l’approccio punitivo e l’arroganza di Bruxelles non rischiano di rafforzare il loro convincimento che sia meglio uscire, costi quel che costi? Invece di un ripensamento, potrebbe arrivare un backlash. Il cosiddetto “project fear” ha già falllito una volta. Non il bastone, non la minaccia dei danni che l’Unione può infliggere a chi osi “tradire” dovrebbe indurre i popoli europei a continuare a farne parte, ma la politica, la sua capacità di affrontare le crisi dimostrando con i fatti, ai cittadini, i vantaggi della membership. Fino a quando potrebbe reggere l’Ue, se a tenerci dentro fosse la paura e non la politica?
Quella che oggi appare come una dimostrazione di forza dell’Unione, favorita dagli errori commessi a Downing Street, può facilmente e molto presto rivelarsi una debolezza. La pretesa europea, causa dell’impasse, che la questione nordirlandese, ovvero assicurare che tra le due Irlande non ci sia un confine rigido, fosse risolta prima di iniziare i negoziati per un accordo commerciale complessivo è contraria alla logica, dal momento che una soluzione può trovarsi proprio nel quadro di un accordo di libero scambio tra Regno Unito e Unione europea. Ma non solo l’Ue non è intenzionata a negoziare un accordo ora; non intende nemmeno gettarne le basi: prima chiudere i conti con il passato, poi discutere le relazioni future, è la tempistica dettata da Bruxelles, lasciando intendere che Londra ha davanti a sé molti anni di anticamera. Sebbene sia sacrosanto non riconoscere a chi è fuori gli stessi vantaggi di chi è nell’Unione, questa posizione nasconde una debolezza. Sembra paradossale che a un Paese fino a ieri membro dell’Unione sia più difficile ottenere ciò che è stato concesso a Paesi europei quali la Norvegia, la Svizzera, o anche non europei come il Canada, pur presentando a differenza di quest’ultimo caso molte meno difficoltà negoziali, essendo gli standard britannici fino a un minuto prima del 29 marzo gli stessi europei.
Perché? Perché dire sì al libero scambio con Londra significherebbe riconoscere subito l’ovvio, e cioè che il temuto cherry-picking è inevitabile ed è già stato concesso ad altri Paesi, perché in definitiva ciò che è nell’interesse dei cittadini sia sulle isole britanniche che sul continente è il libero commercio, e tutto ciò che in concreto serve alla loro prosperità e alla sicurezza, mentre la “ever closer union”, l’unione politica, con le sue sovrastrutture, le sue complicazioni, l’armonizzazione fiscale, i suoi costi politici ed economici, non è necessaria, è un’utopia costruttivista che sta dimostrando di essere un ostacolo, di dividere anziché unire i popoli europei. Come aveva già capito Margaret Thatcher e spiegato nel discorso di Bruges nel 1988, esattamente trent’anni fa:
“La Comunità non è un fine a se stessa. Non è un dispositivo istituzionale che deve essere costantemente modificato secondo i dettami di un concetto intellettuale astratto. Né dev’essere sclerotizzata in una regolamentazione senza fine. La Comunità europea è uno strumento pratico attraverso il quale l’Europa può garantire la futura prosperità e la sicurezza della sua gente. Noi europei non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in controversie interne o arcani dibattiti istituzionali. Non ci sono sostituti ad una azione efficace. (…) La cooperazione attiva e volontaria tra stati sovrani indipendenti è il modo migliore per costruire una Comunità europea di successo. Cercare di sopprimere le nazionalità e concentrare il potere al centro di un conglomerato europeo sarebbe altamente dannoso. Lavorare a più stretto contatto non richiede che il potere sia centralizzato a Bruxelles o le decisioni siano prese da una burocrazia designata”.