Con una certa cadenza stagionale, l’ipotesi proibita torna ad aleggiare in un Regno Unito che trascorre un’estate accaldata: le fotografie dal satellite mostrano la verde isola provata dall’ondata di calore che non si schioda dal mese di luglio, uno scenario opposto all’inverno freddo e nevoso che faceva da cornice al ritorno dell’ipotesi proibita su Brexit, ovvero quella che prevede un secondo referendum. L’idea tra gennaio e febbraio circolava da qualche settimana, quando Boris Johnson intervenne con un discorso che rilanciava il progetto di una nazione fuori dell’Unione europea e diretta verso il resto del mondo. Oggi se ne torna a parlare con insitenza, ma Johnson non è più Foreign Secretary in seguito alle dimissioni a causa del documento varato da Theresa May che ha
decisamente scontentato i Leavers e indebolito ulteriormente il primo ministro.
Il white paper presentato tre settimane fa di fatto è stato accantonato dopo alcuni ritocchi e soprattuto in seguito alle perplessità sollevate dalla controparte europea. Punto e a capo. Le quotazioni in risalita di un No Deal, la convinzione dei britannici che il governo stia operando male (il 78 per cento degli intervistati da Sky News ha espresso un parere decisamente negativo sul lavoro svolto dall’esecutivo), il preoccupante scenario di scorte alimentari e di medicinali accatastate in diversi punti dell’isola per garantirle alla popolazione all’indomani del 29 marzo 2019 e della chiusura dei confini: il mix di timori è servito all’opinione pubblica quotidianamente e per la prima volta dal giugno 2016 un sondaggio di YouGov suggerisce che il 42 per cento dei britannici vuole votare una seconda volta, esprimendosi sui termini finali degli accordi, contro il 40 per cento che si dice contrario.
Da Downing Street lunedì hanno commentato che non è previsto alcun secondo referendum, ipotesi sostenuta tra gli altri da Lord Peter Mandelson, ex ministro laburista e commissario europeo al commercio, che è intervenuto a gamba tesa: i Brexiteers sono dei nazionalisti che odiano degli stranieri e non dei patrioti, al contrario di chi si sta battendo per un nuovo voto. Parole dure che si inseriscono in un contesto già profondamente diviso sul tema.
Scorrendo i risultati dei sondaggi pubblicati nel corso degli ultimi due anni, i trend mostrano un continuo susseguirsi di sorpassi tra le due parti, Leave e Remain, con scarti ridottissimi tra il 2 e il 5 per cento – e una buona fetta di indecisi. Un testa a testa replicato di fronte alla domanda se il Regno Unito abbia fatto bene ad uscire dall’Ue o no, con la voce Wrong però in constante (e risicato) vantaggio, specie dopo l’ultima crisi politica che ha colpito la
maggioranza conservatrice (altrettanto risicata). Intanto sono tornati i fantasmi dello UKIP, scomparso dai radar, ma giudicato dal 23 per cento degli elettori Tories come il miglior partito a cui affidare la pratica Brexit: se si può riassumere in un valore numerico il fallimento del piano May, questa percentuale può andar bene.
Ciascuno ha i suoi spauracchi e le proprie convizioni. I Remainers temono un addio totale all’Ue e confidano in un’uscita il più soft possibile; i Leavers al contrario hanno paura che la Brexit si riveli troppo morbida e che il Regno Unito resti vincolato alle decisioni di Bruxelles; entrambi però si augurano che non si giunga ad uno scontro finale senza un patto che garantisca i rapporti tra una sponda e l’altra della Manica. I pontieri sono costantemente all’opera e in risposta al no di Michel Barnier, il capo negoziatore dell’Unione, alle ultime offerte presentate, Londra prova a minacciare gli interessi finanziari dell’Ue nella City. Negli ambienti governativi britannici i malumori per le posizioni considerate “dogmatiche” da Barnier sono evidenti, mentre c’è chi vede nella strategia europea l’intenzione di arrivare a ridosso della fatidica scadenza delle consultazioni con la convizione che il governo May (o chi per lei) alla fine accetterà di continuare a far parte dell’unione doganale.