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Caduto Conte, Zingaretti braccato: Pd tra una concorrenza a perdere e la rinuncia alla vocazione maggioritaria

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È stato fin troppo facile prevedere, anche per uno come il sottoscritto isolato nel suo studiolo bolognese, che lo scopo perseguito dal “matto di giornata”, Renzi, andava ben oltre lo sfratto da Palazzo Chigi dell’avvocato del popolo. Certo, ben sicuro che Mattarella non avrebbe sciolto il Parlamento – per un intuito politico che qualche altro leader, intento ad agitare lo spauracchio del “tutti a casa”, gli dovrebbe invidiare – Renzi voleva anzitutto impedire che Conte si rafforzasse come referente unico di una alleanza 5 Stelle-Pd, che lo avrebbe tagliato fuori, schiacciato fra un centro-sinistra ed un centro-destra compatti. Ma c’era dell’altro: ottenere, facendo fuori Conte, l’indebolimento di un pacioso Zingaretti, che, all’indomani del golpe renziano, si vantava di averlo fatto fallire, per essere riuscito a tenere insieme quella alleanza assunta come unica e sola alternativa, se pur a costo di annacquare l’identità programmatica di un partito a ribadita “vocazione maggioritaria”.

Non era difficile immaginare che Conte, morsicato dalla tarantola del potere, non sarebbe tornato alle sudate carte: perduta la carica di presidente del Consiglio dei ministri, non avrebbe più potuto esercitare il ruolo di mediatore fra 5 Stelle e Pd, ma si sarebbe trovato aperto solo lo sbocco di referente dei 5 Stelle, rendendoli per ciò stesso competitivi rispetto al Pd. La costituzione del Governo Draghi, con un quasi generale “vogliamoci bene”, ha accelerato la crisi interna dei 5 Stelle: del tutto scontato il richiamo in servizio di Conte – da parte di un Grillo trasformatosi in astronauta – quale “uomo solo al comando”, con una conseguenza del tutto prevedibile, la massiccia deriva a favore dei 5 Stelle della base elettorale Dem, come confermata a pieno titolo dal sondaggio sul telegiornale di La7 di lunedì sera.

Conte si è preso tempo, per gestire il definitivo passaggio da movimento a partito, dov’è chiaro l’abbandono del radicalismo anti-istituzionale originario, con a suo residuo profeta Di Battista, ma non il punto di approdo, a prescindere dalla conversione parlamentarista, cioè di sinistra egualitaria e ambientalista oppure di centro moderato e liberale. In attesa della quadratura del cerchio delegata a Conte, Zingaretti è oggetto di un vero e proprio assalto, coltivando il sospetto non infondato, ma tardivo, che ne sia ispiratore lo stesso Renzi; il quale, pur dicendo di voler costituire un punto di attrazione al centro, coltiva sempre un desiderio di rivincita, cui non estraneo il sogno di essere richiamato a furore di apparato, se pur non di popolo, a salvare un Pd in corso di evaporazione.

Che Zingaretti si senta braccato, lo conferma il suo tentativo di cercar rifugio nello Statuto del partito, essendo stato eletto con le primarie nel 2019, non sarebbe possibile rimetterlo in discussione prima delle prossime primarie del 2023. Solo che – come ben esemplifica la contemporanea evoluzione dei 5 Stelle – lo Statuto è l’ultima difesa dello status quo, destinata ad essere travolta dall’accelerazione della politica, specie se trova espressione in significative scadenze elettorali. E quelle amministrative di grandi città sono alle porte, se pur possono essere rinviate all’autunno, dove, a dar per scontata la riproposizione dell’alleanza, ma con i 5 Stelle rafforzati da un Conte redivivo, bisognerà vedere quali scelte delle candidature dovrà inghiottire Zingaretti e quali percentuali elettorali potrà riportare a casa. E questo alla vigilia di quella elezione del nuovo presidente della Repubblica che, a stare allo stesso Zingaretti, aveva costituito una delle due ragioni fondamentali per varare quella specie di creatura contro natura costituita dal Conte 2: evitare una consultazione che avrebbe aperto le porte ad una destra populista e sovranista; insediare un presidente della Repubblica strabico a favore della sinistra, come tutti i suoi recenti predecessori.

Non basterà affermare enfaticamente di essere europeista, visto che la Commissione “Ursula” ha fallito completamente in quella che doveva essere una impresa da lei coordinata, con tanto di roboante inaugurazione comune, con una prima iniezione il 27 dicembre 2020. Si è detto che tale coordinazione – con una unica centrale a farsi carico della conclusione dei contratti di fornitura con le Big Pharma – avrebbe tutelato i paesi più piccoli, ma proprio questi hanno cominciato a chiamarsi fuori, rivolgendosi altrove (Ungheria, Austria e forse anche Danimarca). Né sarà sufficiente sostenere solennemente di essere atlantici, paritari rispetto agli Usa, senza avere una forza militare europea, sì da essere del tutto dipendenti dalla mitica “sesta flotta” per le guerre regionali scoppiate nel cortile di casa nostra.

Esaurita senza fortuna la tattica del “resistere, resistere, resistere”, una volta costretto il Pd a partecipare all’unione sacra imposta da Mattarella, resta completamente aperta la questione della strategia, che non può certo essere risolta nei meri termini di una alleanza democratica, celebrata in forma auto-referenziale. Se, ieri, la sfida di identità era tutta a favore del Pd rispetto ad un 5 Stelle ancora confinato a mezzo guado, domani, con un Conte fornito di una delega in bianco, non lo sarà più, con il rischio che il Pd sia costretto ad adattare la sua identità in funzione residuale rispetto a quella adottata dai 5 Stelle. Sia quest’ultima di sinistra moderata o di centro moderato, comunque costringerà il Pd a sovrapporsi nella stessa area o a spostarsi ancor più a sinistra, con l’alternativa di fare una concorrenza a perdere o di rinunciare alla vocazione maggioritaria.

Buon giorno Pd, è ormai mattino avanzato.