PoliticaQuotidiano

Capaci, frasi fatte e format televisivi: l’antimafia dei parassiti e dei parolai

4.3k
Politica / Quotidiano

Il 23 di maggio, anniversario della strage di Capaci, è diventato un format televisivo e il presidente Mattarella pronuncia una di quelle frasi rotonde che piace sentire: o si sta contro la mafia o si è complici. A chi allude Mattarella? Ai politici? Ai giudici del Csm? O alla società possibilista, all’Italia del familismo amorale di Edward Banfield a Montegrano che della mafia o almeno della mafiosità è il compendio definitivo? A Palermo, una volta, mi stupii di come il pensiero mafioso permeava la mentalità comune, anche dei migliori. Motorini e persino auto ti puntavano con l’evidente intento di centrarti se non ti toglievi con schivate da torero, veniva in mente che la battuta di Benigni Stecchino sul traffico, male supremo di Palermo, avesse un suo senso, non paradossale ma più alto, più definitivo.

Mi portavano in un bed and breakfast, tutti camerieri giovani e impeccabili e qualcuno mi diceva: questo appartiene al tal politico, ovviamente tramite prestanome, e il personale è mafioso almeno per metà. Ma erano gentili e professionali. C’era un vecchio venditore di lupini e di carrube che guardava lontano e io mi chiedevo cosa vedesse, se la gioventù perduta, il passato feroce oppure la vita infame che viverla è già scontarla. E perfino l’autista della corriera che ci scarrozzò per una settimana, mi sentì disperarmi “ma come faccio, domani, a tornare all’aeroporto, a Catania se mi è saltato il contatto?” e non disse niente ma la mattina dopo, come distratto, mormorò tra sé, ma in modo che io sentissi bene, che doveva un favore a qualcuno e si sarebbe allungato sino a Fontanarossa. E quando mi vide illuminarsi, mi domandò: sei contento?

Dicono nell’isola che mafioso non è uno stigma ma un certificato di bellezza; e lo dicono i mafiosi. Capaci, frasi fatte e format televisivi: fioccano le dichiarazioni, le doglianze da prefica ma la Lamorgese che indulge nella giaculatoria, “non abbassare la guardia”, non si può sentire: la transumanza degli irregolari via Sicilia non alimenta forse mafie nigeriane, esotiche? Giorgio Bocca scrisse pagine indimenticabili su Falcone, su Borsellino, pagine da leggere quelle sì nelle scuole per quanto crude e accusatorie. Perché si può stare con la mafia anche senza esserne complici, basta la paura, basta il proverbiale silenzio, “io niente ho visto, niente ho saputo”. Ma anche lui Bocca usciva irritato dai colloqui con Falcone, da quel modo di esprimersi per aforismi e allusioni, il modo mandarino di chi considerava la mafia una specialità locale incomprensibile e dunque non spiegabile ai foresti.

L’antimafia dei parassiti e dei parolai l’ho attraversata, e in nessun altro contesto ho trovato tanta mafiosità. Vittime di mestiere, capaci di passare dalla Macarena alle lacrime a comando per il parente trucidato, poi di nuovo i frizzi e i lazzi di chi ha scoperto un modo, facoltoso, di stare al mondo. E non dimenticherò l’unica volta che mi premiarono, con una targa antimafia in Calabria ma prima dei ringraziamenti di rito qualcuno mi sussurrava all’orecchio “Mi raccomando non fare i soliti casini che qui c’è la politica”. La stessa politica che pochi mesi dopo sarebbe stata sciolta per mafia. Non potrò scordare neppure le faide, i messaggi, le allusioni dei giudici star dell’antimafia ai convegni della Fondazione Caponnetto, il capo del pool di Palermo che ebbi in sorte di intervistare per ultimo prima che si spegnesse. Un uomo trasparente, Caponnetto, forse un po’ idealista, ma uno che davvero non scendeva a compromessi, neanche quelli virtuosi, per dire utili. Uno dei pochissimi. Falcone e Borsellino come figli, per entrambi una tenerezza lacerante.

Passano gli anniversari, e i presidenti e le loro frasi rotonde, ma io ricordo il racconto di Paolo Villaggio sui turisti in visita per la Sicilia, portati a Capaci, sul luogo della strage, e la guida tradiva un certo orgoglio che sgomentava i viaggiatori. Ma che fare? Quando mi chiamavano nelle scuole con qualche giudice siciliano antimafia, io facevo il mio numero, da manicheo, da coglione lunare, poi toccava al giudice e lo sentivo invariabilmente raccontare i mafiosi cui dava la caccia come gente superiore. Un discorso fra loro, una compatibilità che i foresti non potevano capire. Lì si capiva che si può essere contro la mafia ma sentimentalmente affini, che lotta e complicità, diversamente da quanto sostiene Mattarella, sono possibili e probabili. Perché entra in gioco la sensibilità, la cultura, entrano le radici. Non a dire, per carità, che i siciliani siano mafiosi per luogo o per cultura, ma perché è difficile nell’uomo, a qualunque latitudine, separare definitivamente il bene dal male e condannare uno con cui magari è cresciuto, ha giocato, ha condiviso gioie e dolori. E poi la linea delle palme e del caffè di cui parlava Sciascia, per dire la cultura mafiosa che guadagnava terreno, è abbondantemente risalita fino alle Alpi.

L’ultima cosa che non dimenticherò è un giovanottino con la sciarpa che predicava la lotta senza quartiere alla mafia e intanto scuoteva i lunghi capelli per l’adorazione delle studentesse. Talmente irritante che l’allora sindaco antimafioso di Gela, Rosario Crocetta, mi bofonchiava all’orecchio: antimafia dei pannolini. Poi Crocetta è affondato in un vortice di accuse corruttive e il giovanotto, votatosi alla causa di una fazione politico-giornalistica, si è fatto raccomandare alla Rai, dove bivacca felice.