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Il caporalato, che fa comodo vedere o non vedere a seconda della convenienza politica del momento

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C’è qualcosa che non va in una nazione che si accorge del capolarato solo quando un incidente stradale falcia un gruppo di lavoratori. Un fattaccio che dovrebbe interessare solo la polizia stradale e la magistratura, come al solito, diventa il palcoscenico per far piangere le ben note lacrime di coccodrillo a politici di ogni risma, sindacalisti sciolti e a pacchetti, tonache e sottotonache più o meno interessate a gestire traffici di esseri umani. Siamo nel mese di agosto, e in Italia i soloni di professione non aspettano altro che notizie drammatiche per pontificare.

Di terra, soprattutto nel sud, ce n’è tanta: qui in Italia, contrariamente a quanto accade nei paesi anglofoni, nei campi non ci sono gli studenti universitari che passano un paio di mesi a raccogliere ogni genere di prodotto per poi ricominciare a frequentare, in autunno, le lezioni negli atenei. No, qui nessuno si vuole sporcare le mani: se negli Stati Uniti tutti, anche coloro che arrivano alla Casa Bianca, vantano pubblicamente i periodi trascorsi d’estate in campagna o a consegnare le confezioni di latte nelle città, qui la rigida separazione delle classi fa evitare ogni genere di contaminazione agricola. E poi si sa, come dice un vecchio proverbio, che “la terra è bassa”, e spaccarsi la schiena per guadagnare qualcosa non è certo di moda tra i giovani: ve le immaginate le nuove leve, appena uscite dai più noti licei romani, pronte a diventare protagoniste delle future stagioni culturali, rinunciare alla spiaggia di Capalbio per cogliere i prodotti della terra? Queste nuove generazioni, coltivate con cura tra i Parioli e il centro storico, preoccupatissime per la cura del corpo, non potranno mai pensare a una possibile vita nei campi, se non nei panni di ereditieri delle magioni dei nonni, prontamente trasformate in lussuosi agriturismi, luoghi nei quali ospitare ricchi stranieri felicissimi di mungere una mucca, cogliere pomodori, attraversare i filari d’uva per recuperare i grappoli di qualche Doc o Docg. Con tariffe degne di un albergo di lusso, ovviamente. Perché i veri esperti dell’economia di rapina sono loro, quelli che fanno pagare anche l’esperienza di coltivatore ai neomilionari, ai quali “donano” anche la possibilità di cucinare personalmente le primizie appena colte. Senza dimenticare di glorificare tutto ciò che è bio, per esigenze di copione, a beneficio della rappresentazione (o come amava evocare un noto ex politico, della narrazione) di scenari da Mulino Bianco.

Cornuti e mazziati, si diceva una volta: un panorama che sfugge, elegantemente ça va sans dire, a chi conosce un mondo dove ogni chicco di grano è il frutto della fatica. Intanto, lontano dai resort, di notte, c’è chi organizza migliaia di lavoratori destinati a sfamare, in tutti i sensi, i consumatori: lo fanno su pulmini che hanno una targa, intestati a persone fisiche, mezzi che compiono più volte al giorno gli stessi tratti di strada. Non sono certo invisibili, ma fa comodo non vederli, fino a quando succede il fattaccio. Ora andrà in onda qualche giorno di recita, con declamazioni ispirate al buonismo, e poi tutti a Capalbio. Fidatevi, pure questa volta andrà così.

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la grande bugia verde