“L’immensità sovrannaturale” di Giovannino Guareschi, “la quale” – come scolpirebbe Peppone – aveva capito con formidabile anticipo le virtù trinariciute dei democratici dalla “obbedienza pronta, cieca e assoluta” incline al “contrordine, compagni!”. Guareschi manca da 50 anni tondi, ma la fola dell’uovo messa in scena dall’informazione con la terza narice sembra una delle sue farse più reali del vero, per dire qualcosa che, se uno ci si mette a pensarla da cima a fondo, non ne cava niente perché la realtà lo supera di molto. Dunque una mattina ci siam svegliati e abbiamo appreso di un “vile attentato fasista” ai danni di una giovane campionessa di lancio del disco, di origini nigeriane, che resta ferita a un occhio e rischia di perdere gli imminenti campionati d’Europa. I fogli ad alto tasso di indignazione sembrano il coro dell’opera: criminali! Siamo tutti complici! Potevano ammazzarla! Poteva perdere l’occhio! E, naturalmente, non si tengono dall’additare nel colpevole dell’infame atto di aggressione contro le classi popolari il ministro dell’interno, Holocaust Salvini. Per una volta, la sinistra si ritrova compatta come un politburo dei bei tempi che furono e suona la grancassa: “Ecco i risultati della propaganda di quei porci reazionari dei sovranisti!”. Si annunziano rovesciamenti in piazza, manifestazioni contro il razzismo, però a settembre, andiamo, è tempo d’indignarsi, mentre la giovane discobola vive momenti di sofferta notorietà: dapprima ci va cauta, dubita, esita, poi, travolta dal vento mediatico e twittarolo, non si tiene più e si dice “sicura al 120 per cento: è fascismo sessismo razzismo”. E passi per il razzismo, ma cosa c’entri il sessismo in questo caso, solo il dio delle omelette lo sa. Quanto al padre, incombe dietro gli occhiali a specchio da discotecaro anni ’70: ha paura per la figlia, per la sua famiglia, non sa se restare in Italia, il clima si è fatto pesante, guardatevi un po’ intorno.
Passano le ore, le certezze scricchiolano, vien fuori che i lanci di uova da quelle parti, – Moncalieri, neh – vanno avanti da tempo e centrano chi capita, altre donne senza allori e senza storia, ma, soprattutto, senza distinzioni di colori. Niente da fare, l’obbedienza pronta, cieca e assoluta s’impone, Renzi vaneggia cinguettii maiuscoli, come quelli che hanno qualche problema di maturità e di espressione, per i quali la ragazza sarebbe stata “selvaggiamente picchiata da schifosi razzisti nel quadro di una EMERGENZA che NESSUNO può negare, specie se siede al Viminale”; altri twittatori a tre narici non sono da meno: Laura Boldrini riferisce di aggressioni a Daisy da “schifosi vigliacchi”, Cécile Kyenge si rotola alla constatazione del “clima d’odio” che ha portato all’“ennesima vittima di violenza razzista”, il segretario balneare Martina, tintura Cacciari, filosofeggia sulla complicità di quanti negano “la spirale razzista che sta crescendo nel Paese”.
Ancora qualche ora e il castello xenofobo si squaglia: li prendono, sono tre ragazzini bennati e annoiati, uno è figlio di un consigliere comunale Pd e di una attivista della donciottiana Libera, la faccenda scappa di mano e l’imbarazzo, come si dice, è palpabile (absit injuria verbis, masannò è sessismo). Ma non è ancora niente, perché sulle macerie del maniero razzista sessista fascista piovono pietre che neanche Ken Loach potrebbe immaginare: il padre della discobola Daisy ha sul groppone una condanna a 5 anni abbondanti per trascorsi nel racket della prostituzione nigeriana, cui non era estranea neppure la madre. Praticamente, la minaccia per la sua gente era lui (più avanti, avrebbe trovato impiego in una cooperativa umanitaria). Un disastro, una tòpica epocale, roba che don Camillo ci avrebbe ricamato mesi a suon di comunicati stampati alla tipografia del Barchini.
Dopodiché subentra l’indecisione del marxismo di ogni tempo e sotto ogni cielo: che fare? Beh, anzitutto, si capisce, troncare, lenire. E sospirare. Sui demogiornali, sbiadita ogni traccia di indignazione, si cancellano i precedenti della famiglia di Daisy. Ma il meglio arriva con la trafelata operazione simpatia chirurgicamente sull’unico figlio di partito: interviste agiografiche scendiletto, a pelle di leone per dipingerlo come un jovanotto pieno di ideali, uno che non voleva far male a nessuno, al limite uno con una mira da olimpionico, “ma il razzismo no, quello mai, mai, mai mai”. L’allarme è completamente svanito, il pericolo, almeno in questo caso, è come l’adipe di Mimmo Craig dopo aver bevuto l’olio Sasso, “non c’è più, non c’è più, e il razzismo non c’è più”. Da cui si evince una profonda verità trinariciuta: il colore dell’uovo dipende da chi lo tira, e così anche quello del bersaglio; dall’angosciata certezza di una xenofobia austriacante, alla confortevole convinzione di una ragazzata italiana, ma della parte buona, sana. Ma quale sessismo, quale odio, i giornali con lo sfiato per farci uscire le direttive di partito fanno a gara a ridimensionare, a buttarla in goliardata, strano che nessuno trovi modo di scrivere che le uova, specie a un’atleta, fanno bene, che il giovane favoloso targato Pd l’ha fatto per lei, a mò d’incitamento per gl’imminenti campionati europei. Fortuna che Daisy, forse rinfrancata per le rinnovate certezze, guarisce prodigiosamente ed è pronta a recarsi a Berlino per lanciare il suo uovo, pardon, disco, più lontano del passato, delle polemiche, degli allarmi son fassisti, terror dei globalisti. E tutti vissero felici e contenti, almeno fino al prossimo allarme progressista.
Solo che un paio di cose non tornano, e i giornali non le spiegano. La prima, come fa un ragazzo fortunato, mamma guarda come si diverte, uno imbevuto dei valori giusti, delle letture adatte, degli esempi adeguati, a finire come un teppistello punk? Ebbene, a costo di scandalizzare i rettopensanti, noi diremo che non cerchiamo alcuna giustificazione nel proditorio lanciatore d’uova; la troviamo, però, pensando a quale tormento dev’essere stata la sua buena educacion tra un’articolessa lessa di Saviano, un’omelia pontificale, nel senso dei ponti, di don Ciotti, un’intemerata boldrinesca, un girotondo solidale, una dieta a base di sensi di colpa per il pianeta che si surriscalda, un’isteria allarmifera ad ogni stormir di fronda. Roba da trasformare anche un san Francesco in un Johnny Rotten. L’altra cosa che non torna, sta nella complicità denunciata dai twittaroli in maglietta rossa: se chi nega, minimizza, sottovaluta è complice, come la mettiamo con i giornali a scaldasonno che hanno trasformato nell’arco di una luna un uovo al napalm in uno zabaione corroborante?
Intanto anche a Vicofaro, nel Pistoiese, s’affloscia l’allarme razzismo seguito ad un episodio truce, un gambiano nel mirino di proiettili a salve: sono stati due mocciosi ancor più mocciosi dei colleghi di Moncalieri, 13 anni buttati al vento, i quali, come di prammatica, si sono salvati nel corner della “goliardata”, scusa che meriterebbe un supplemento di cura alla don Camillo, e non approfondiamo: perché non sono né razzisti né goliardi, sono delinquentelli precoci (e pure analfabeti in saecula saeculorum). La stessa polizia sembra diplomaticamente riconoscerlo, dice, senza dirlo, che queste giovani risorse sono troppo sceme per pensare, sia pure in modo aberrante. A meno di non voler prestare fede cieca, pronta e assoluta a quelli come don Biancalani, che pare atto di fede a volte rischioso. Perché è vero, e va pur detto, che l’aggravante razziale resterà teoricamente contemplata dalla procura, ma scomodare il razzismo metodologico alla Gobineau per due testine cave di 13 anni “provenienti da famiglie benestanti”, è operazione al confine con Tertulliano, credo quia absurdum. Sia come sia, tutti se la cavano col solito buffetto politicorretto, previa verifica cautelativa se per caso uno o l’altro non sia un figlio di partito. Sempre a Vicofaro, un clamoroso “contrordine, compagni”: don Biancalani, il prete che accoglie migranti senza andar per il sottile, li mette in piscina, gli porta Kyenge e Boldrini, gli insegna la resistenza, si vede chiudere il centro d’accoglienza per plurime irregolarità ravvisate da Asl e Vigili del Fuoco.
Ma il rigurgito rettopensante più terrificante dell’estate, praticamente un film horror, è quello di madama Argento, la pAsianaria del metoo, la gatta a nove code di paglia ridipinta come una Weinstein qualsiasi e da chi? Addirittura dalla fidanzata della reginetta del movimento Rose mcGowan, attricetta pruriginosa senza arte e con molta parte. Una scintillante faida interna che, prima della scontata difesa d’ufficio, molto pelosa, lascia per qualche giorno tutti senza parole a cominciare dalle compagne militanti del metoo per continuare con certe intellettuali ammuffite per finire con madama Boldrini che già corteggiava politicamente la faccia di bronzo dell’Argento.
Dalle cronache evaporano in fretta altri spettri, per esempio sul trenino regionale da Milano a Mantova dove una capotreno, capotrena se vi pare, pleonasticamente invitata gli abusivi rom a scendere e a non molestare chi il biglietto lo paga. Cosa scandalizza molto i principini sul pisello dei demogiornaloni, assai meno i passeggeri che idealmente sottoscrivono il rude appello della capotreno in proporzione plebiscitaria: qualcosa vorrà dire, come minimo che la divaricazione tra chi i giornali li scrive e chi li legge è ormai abissale. Grande è la confusione sotto le pensiline, la situazione è indecente: alla lettera, razzismo sarebbe dire a uno “devi scendere per come sei”, non “devi scendere per cosa fai”, cioè scroccare rubare intimidire. Purtroppo ci restano i foschi disegnini di Vauro, uno che viaggia in frecciarossa-rossa-rossa e non sospetta cosa sia spostarsi su certe tratte infernali: è il solito vizio capitale dei censori liberal da gambetta accavallata ai talk show, e qui davvero vaccino non c’è.
Contrordine pure a Chiaravalle di Ancona, dove una vetrina in frantumi di una sede Cgil provoca una sdegnata sollevazione popolare democratica: tutti a denunziare “la vile provocazione fascista”, dai sindacati al vicesindaco, dall’immancabile e sempre arzilla Anpi a Rifondazione Comunista (essa vive, almeno a Chiaravalle), e giù dichiarazioni, comunicati, cartelli, avvisi, allarmi: tutto per niente, il cecchino è un monello con una pallonata, dite voi se non pare uscita pari pari dal Mondo Piccolo di Guareschi questa storiella…
Ma ecco che finalmente spunta il nuovo faro, la coscccienza civile che la sinistra globbbalista aspettava da tempo: si chiama Ivano, sembra rotolato fuori da una vignetta di Staino: trasandato, puredduro intransigggente, almeno finché non gli garantiranno uno strapuntino, una poltrona, o magari un divano, Iwano parla schietto, in vernacolo, è antifascccista viscccerale per vocazzzione, c’ha la camiciona a quadri, la barba incolta vissuta, è un tipico prodotto della sinistra “ma quella vera”. Il che significa che non ha tre narici, ne ha almeno trentasei.
Il dulcis del voltafaccia arriva sempre in fundo: e quest’estate, crepi l’avarizia, ne abbiamo almeno due. Il primo riguarda la ex eroina martire della Birmania, dei Parioli e di Capalbio, quella col nome che pare una marca di birra, Aung San Suu Kyi. Ricordate quando nel 1994 la Roma democratica e progressista la gratificò della cittadinanza onoraria? Oggi l’Onu la accusa in pratica di genocidio e nessuno tra i restiamo umani vuol sentirne più parlare, anzi te la tirano dietro la lattina premio Nobel per la Pace (lo stesso di Obama).
Ma quello davvero strepitoso sta, anzi stava, a Rocca di Papa, terra di prima accoglienza dei migranti della Diciotti (qualcuno, poco informato, forse confuso dal presenzialismo del religioso ha inteso “la nave don Ciotti”), che avrebbero dovuto venire associati a strutture della Chiesa, redistribuiti, smistati eccetera: in quaranta, all’incirca un terzo, subito si sono dati, non hanno neppure aspettato i gelatini di Bergoglio e così abbiamo 40 clandestini in più, disposti a tutto e allo stato brado. In altre parole, il modello sull’onirico-coglione di integrazione a sinistra non tradisce mai. Nemmeno guarisce: da leggenda il tortuoso contrordine della Caritas: “Non è fuga ma allontanamento volontario”. Volontario di chi?
E tutto questo non significa altro che quel gran genio di Giovannino è sempre con noi e sempre lo sarà:
Contrordine compagni! La frase pubblicata dall’Unità: “Occorre allattare i fascisti di sinistra perché entrino nel P. C. I.”, contiene un errore di stampa, e pertanto va letta: “Occorre allettare i fascisti di sinistra perché entrino nel P. C. I.”.
Adattare la ditta al passo dei tempi, P. D., e il gioco è fatto.