Caso Gregoretti: le conseguenze paradossali di un processo a Salvini

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Sul ruolo giocato dal senatore Salvini, come vice-ministro e ministro dell’interno, nel corso del duplice caso, ieri la Diciotti oggi la Gregoretti, è emerso il vulnus inferto allo statuto garantista previsto a favore dell’esecutivo vis-à-vis del giudiziario dall’originario testo costituzionale. La legge costituzionale n. 1/1989 ha modificato gli artt. 96, 134 co. 3, 135 co. 7, sì da escludere per il presidente del Consiglio e per i ministri, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, la procedura “speciale”, per la quale potevano essere messi in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune e giudicati dalla Corte costituzionale, integrata da sedici membri elettivi; e l’ha sostituita con una procedura “ordinaria”, attribuendone la competenza alla magistratura del Tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio, il c.d. Tribunale dei ministri: con il procuratore titolare dell’azione penale e un Collegio giudicante formato da tre membri estratti fra tutti i magistrati dei Tribunali del distretto aventi certi requisiti. Ora, una volta che detto Collegio abbia concluso per la sussistenza di reati inerenti allo svolgimento delle funzioni ministeriali, deve richiedere l’autorizzazione a procedere alla sola Camera di appartenenza, che può rigettare la richiesta a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Sia nel caso della Diciotti che in quello della Gregoretti, il procuratore di Catania ha proposto l’archiviazione, mentre il Collegio giudicante ha concluso per la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato: né c’era nient’altro da aspettarsi, trattandosi degli stessi magistrati. Ma l’evoluzione della richiesta si preannuncia diversa, perché, per la Diciotti, la Giunta per le autorizzazioni si era dichiarata contraria alla richiesta, con la successiva conferma da parte dell’assemblea; mentre, per la Gregoretti, si preannuncia una conclusione rovesciata, cioè favorevole, sia in Giunta che in assemblea.

Tutto si è giocato e si gioca sulla distinzione fra la valutazione del Tribunale dei ministri, che riguarda la sussistenza dei reati ministeriali contestati, e la valutazione della Camera di appartenenza, che concerne l’esistenza delle esimenti costituite dall’aver agito “per la tutela dell’interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Ora, è difficile giustificare una valutazione diversa di queste esimenti, dato che i casi sono largamente sovrapponibili, sì che la richiesta avanzata dal Tribunale dei ministri li differenzia soprattutto in base alla diversa idoneità dei due mezzi navali ad ospitare gli emigranti imbarcati. Tant’è che la difesa di Salvini, nel caso Gregoretti, si limita a confermare, con una documentazione ad hoc, che anche questa volta vi è stata una partecipazione consapevole del presidente del Consiglio e dei ministri competenti, in forza di una politica dell’immigrazione condivisa, cioè intesa di costringere l’Ue a farsene carico, come in effetti sarebbe successo, almeno con riguardo ad alcuni Paesi volenterosi.

La nota ironica è che, a preannuncio di una posizione favorevole alla richiesta di autorizzazione, i rappresentanti del Pd sostengono trattarsi di due casi identici, tant’è che, avendo votato sì la prima volta, non c’è ragione di dire no la seconda. Cosa che sembra condivisa anche da quelli di Italia Viva, perché allora erano nel Pd, come se l’uscita non cambiasse nulla, tanto più che un Renzi, braccato dalla Procura di Firenze, ha tuonato nell’aula del Senato contro l’invadenza della magistratura. Mentre i rappresentanti dei 5 Stelle, schierandosi per il sì, affermano che i due casi sono diversi, così da giustificare il voltafaccia nel passare dall’uno all’altro, con la motivazione che, ora, non c’è stata quella corresponsabilità del Governo, testimoniata allora dalla produzione di lettere di condivisione a firma Conte, Di Maio, Toninelli.

Aspetto quest’ultimo messo in discussione dalla documentazione prodotta dalla difesa di Salvini, ma del tutto irrilevante per il Tribunale dei ministri, che, dopo la conoscenza di quelle lettere, non ha certo proceduto alla chiamata di correi. E neppure tanto rilevante per la discussione avvenuta nella Giunta delle autorizzazioni nel caso della Diciotti, dove è stato fatto valere dagli stessi rappresentanti dei 5 Stelle il comune approccio alla politica dell’immigrazione del Governo giallo-verde, quale esplicitato nel “contratto” e in seguito tradotto nei due decreti “sicurezza”, rimasti a tutt’oggi in vigore.

Non ho intenzione di scendere qui in una analisi dell’argomentazione svolta dal Tribunale dei ministri, perché una volta concluso per la richiesta di autorizzazione, non tocca alla Giunta delle autorizzazioni e all’assemblea senatoriali discuterla ed eventualmente contestarla. Mi è sufficiente osservare quale sarebbe la conseguenza del far propria tale argomentazione con una equiparazione rigida del regime dei naufraghi, cioè di persone che certo non si mettono in mare dando per scontato il cedimento di una imbarcazione inidonea a stare galla, a quello degli immigranti che, invece lo fanno, fidando nella promessa degli scafisti che comunque verranno soccorsi. Deriverebbe una specie di sequenza automatica: obbligo di soccorso appena ricevuto l’allarme, non solo nella propria zona operativa, ma anche in quella di Malta, qualora quest’ultima non vi provveda; e, poi, obbligo di indicare un luogo sicuro; e, infine, obbligo di uno sbarco a breve, non essendo sufficiente l’ancoraggio alla banchina, se pur previo trasbordo delle donne in gravidanza, dei minorenni e degli ammalati bisognosi di cure urgenti, nonché approvvigionamento di tutto il cibo e l’acqua necessari. Naturalmente, una volta sbarcati, scatta l’accordo di Dublino, per cui rimane a nostro carico il riconoscimento, il giudizio sullo status di rifugiato, il rimpatrio di quelli che non acquistano tale status, cioè la percentuale di gran lunga minore. Tutto questo risulta estremamente difficile e oneroso, per di più aggirato da molti immigrati che appena sbarcati diventano uccelli di bosco, andando ad ingrossare le file dei clandestini nelle periferie delle nostre città.

Non v’è dubbio che la sinistra coltivi la ricorrente tentazione della via giudiziaria come alternativa a quella elettorale, una volta che questa sia perdente, aiutata da una certa parte della magistratura, specie inquirente, ossessionata dall’idea di dover difendere una democrazia dalla destra, sia, ieri, quella di Berlusconi e, oggi, quella di Salvini. Mentre penso che questo Governo è intenzionato a durare, uscendo in questo intento non indebolito, ma rafforzato da ogni eventuale sconfitta regionale; penso, altresì, che l’apertura di un procedimento penale a carico del leader della Lega potrebbe farne un perseguitato per le sue idee, a cominciare da quelle in materia di immigrazione, che ritornerebbe ad essere questione calda, consegnata all’attenzione spasmodica dei mass media per tutto il corso del processo. Ora, escluso che Salvini possa essere privato della sua libertà personale, mancando le precondizioni giuridiche e, comunque, essendo prevista una apposita delibera del Senato che si può del tutto escludere; escluso questo, è altamente probabile che il processo duri più di un triennio, prima di arrivare ad una condanna passata in giudicato. E saremo alla fine della legislatura, cosicché la vera partita si giocherebbe comunque con le elezioni politiche.

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