Non sempre la democrazia “muore nella oscurità”, come è scritto pomposamente sulla testata del Washington Post – da quando l’ha acquistato Jeff Bezos, però. A volte la democrazia può morire anche nel ridicolo e nel grottesco. Come potrebbe succedere con il cosiddetto affare Kavanaugh. Il giudice nominato da Trump e sottoposto all’esame del Congresso, ora accusato da un donna, Christine Ford, di aver tentato di violentarla. Ieri, una settimana, dieci anni fa? No, 36 anni prima, nel 1988, quando Kavanaugh aveva 17 anni e lei 15. Già tutto questo in una democrazia liberale sana basterebbe per farsi quattro risate e procedere avanti.
Tanto più che la donna ritrova ora la memoria, quando Kavanaugh è una figura pubblica già da molti anni. E la ritrova con l’aiuto del suo avvocato, una vecchia routier del femminismo radical, e di una senatrice dem, ultra anziana e ultra anti Trump, Dianne Feinstein, e guarda caso proprio sulle colonne del Washington Post.
Il Wall Street Journal del 18 settembre scrive con eleganza e senso dell’eufemismo che vi sarebbero forti sospetti di manipolazione politica. Noi che non siamo eleganti e non amiamo l’eufemismo diciamo: proprio la classica porcata del partito dell’Asinello. Guarda caso ancora, pensa le coincidenze, Feinstein, informata a giugno, fa uscire solo ora il fatto, all’inizio della campagna elettorale di mid term. L’intenzione dei dem è chiarissima: posticipare il più possibile la nomina di Kavanaugh per riuscire a passare la consegna al prossimo Senato, che i dem sperano di controllare, in modo da bocciare il giudice. E al tempo stesso in campagna elettorale puntare contro Trump e i repubblicani accusandoli di essere il partito che difende gli stupratori – già Michelle Goldberg sul New York Times lo scrive esplicitamente.
Ora questo caso dimostra chiaramente come a minare non la democrazia – termine che nulla vuol dire – ma le istituzioni siano decisamente più i liberal e i democratici che Trump e il Gop. Le istituzioni decadono quando viene intaccata la fiducia dei cittadini nei loro confronti, quando vengono corrose da un clima di polarizzazione, quando le autorità che, per Costituzione, dovrebbe essere indipendenti, a cominciare dalla Suprema Corte, vengono trascinate nell’agone politico. Che un partito di simpatici (ma non sempre) puttanieri come quello Democratico, il partito dei Kennedy, di Bill Clinton, del braccio destro di Hillary, Anthony Weiner, che mandava foto delle sue pubenda a tutte, e infine di Weinstein, cavalchi una campagna sulla dignità delle donne e sulle eventuali molestie rappresenta un caso di ipocrisia senza pari. Ora è vero che un certo tasso d’ipocrisia in politica è inevitabile e che già nel 1991, contro il giudice Clarence Thomas, furono i dem a montare il caso. Che però aveva altra rilevanza, e comunque non portò all’obiettivo sperato, cioè far cadere il giudice, anche perché diversi deputati e senatori dem non condivisero l’attacco alle istituzioni che tale strategia comportava. Comunque superato un certo livello, l’ipocrisia produce sfiducia verso le istituzioni.
Il gioco a somma zero e l’evocazione della guerra civile. È evidente che l’affare Kavanaugh è tema di campagna elettorale giocata dai dem come the final countdown, la sfida finale contro il demonio: se si perde, la democrazia morirà, come scrive Hillary Clinton nella prefazione alla nuova edizione del suo libro, “What Happened”, guarda caso in uscita in questi giorni. Se i dem invece vinceranno, cioè disporranno della maggioranza in entrambi i rami delle Camere? Pochi lo dicono esplicitamente ma è evidente dal caso Kavanaugh che si preparano all’impeachment. Nonostante i consigli forniti da giuristi del loro campo, a cominciare da Alain Dershowitz nel libro “The Case Against Impeaching Trump” (che però per questo è stato “espulso” dai circoli progressisti), la tentazione è forte. Ma, se anche il colpo dovesse riuscire, Trump potrebbe, come ha anticipato, ripresentarsi nel 2020 in una sorta di Armaggedon. A quel punto il clima da civil war, che già si respira almeno in certe fasce della popolazione, potrebbe estendersi a molte altre e diventare più caldo. Sarebbe infatti il primo caso nella storia americana di un presidente cacciato con impeachment, una procedura per altro aperta molto raramente nei secoli. Difficile che Trump seguirà la stessa strada di Nixon, dimettendosi prima per non subire il processo, e non sarebbe neppure giusto che lo facesse.
Finisce a pezzi anche la Suprema Corte che entra in campagna elettorale. Ora è già anomalo, anche se inevitabile, che gli elettori chiamati a scegliere i loro rappresentanti siano anche coinvolti in un pronunciamento pro e contro il presidente. A questo punto però nella posta in gioco entra pure la Suprema corte. Che diventa così, se non di diritto, di fatto, una carica elettiva, sottomessa al volere degli elettori, quindi politicizzata e divisa al suo interno per linee partigiane. Si accentua così il carattere di una istituzione che, nel corso dei decenni, ha ampliato sempre più i suoi poteri, in senso legislativo: un passo in più verso il governo dei giudici. La persona Kavanaugh c’entra poco, cosi come l’accusa rozza dei dem di voler rendere illegale l’aborto, ipotesi che egli ha sempre negato. Come osserva candidamente il New York Times, se per caso Kavanaugh dovesse ritirarsi, al suo posto entrerebbe un giudice non molto diverso da lui, almeno agli occhi dei dem. È evidente che la partita dei liberal è solo strumentale, ma fa capire quanto essi siano disposti ormai a gettare nel fango la principale istituzione della Repubblica.
Un caveat è necessario. La battaglia è dem contro repubblicani? No, è Trump contro il Deep State. Tanto è vero che immediatamente emersa la notizia, è stato un senatore repubblicano, Jeff Flake, a saltare sul caso. Autore di un libro anti Trump, “Conscience of a Conservative”, deciso a non ripresentarsi in odio al presidente, molto vicino a John Mc Cain, Flake rappresenta un equivoco nell’equivoco. Quello di considerare conservatori alcuni esponenti del Gop, a cominciare dai neocon, quasi tutti schierati contro Trump da tempi non sospetti. Leggendo il libro di Flake, come quello di Condi Rice, “Democracy”, di David Frum (ghost writer di Bush jr) “Trumpocracy: The Corruption of the American Republic”, di Fukuyama (“Identity”) è difficile capire di quale pasta sia fatto il loro supposto conservatorismo, visto che sono d’accordo su tutto con i liberal e i dem, almeno quelli centristi, clinton-obamiani. Sono pressoché ormai open border sull’immigrazione, sono per un assoluto free (e non fair) trade, sono globalisti, sono interventisti wilsoniani in politica estera (l’idea idiota di esportare la democrazia è uno dei più grandi marchi di fabbrica della sinistra Usa). I neocon nascondono il loro liberalismo de facto dicendo che Trump violerebbe la “dignità” della carica, ma probabilmente il loro astio nasce da qui: che molti di loro sono sempre rimasti quei liberal quali all’origine erano, mentre il passaggio nel campo “conservatore” fu per loro solo strumentale. Celiando ma non troppo, Niall Ferguson ha scritto che se Trump dichiarasse una bella guerra per esportare la democrazia anche alla più piccola isola del mondo, i neocon diventerebbe tutti trumpiani – alla faccia della “dignità”!
Sorge infine spontanea una domanda: può accadere qui, vogliamo dire in Europa? Pur nella diversità dei contesti istituzionali, la risposta è sì. Se il colpo di Kavanaugh dovesse riuscire, fungerebbe da esempio anche per le sinistre europee e per i finti conservatori del popolarismo merkeliano. Che, con l’aiuto dei media, dei giudici, del ventre molle dello schieramento che avversano, della tecnica della character assassination, della caccia alle streghe e della demonizzazione, potrebbero essere tentati, pur avendo perso le elezioni, di cacciare chi ha vinto per prenderne il posto. E in Italia, del resto, non è detto che non gli sia già riuscito in passato: do you remember 1992 e 2011?