Come ogni anno dal 1976, l’11 settembre si è celebrata in Catalogna la “Diada”, la festa nazionale catalana, densa come sempre di significati politici.
Nella mente di tutti, naturalmente, il dibattito sull’indipendenza e l’avvicinarsi della sentenza giudiziaria nei confronti dei politici ed attivisti in carcere per gli eventi legati al referendum “unilaterale” del 2017.
Quest’anno la giornata ha lasciato sentimenti misti. Da un lato, nel mondo indipendentista c’è soddisfazione per essere riusciti a mettere in campo, per l’ottavo anno consecutivo, una delle manifestazioni più grandi, positive e pacifiche d’Europa; circa 600 mila persone, secondo le autorità, sono scese in piazza a Barcellona con gli slogan “Objectiu Independència” (“Obiettivo indipendenza”) e “Ho tornarem a fer” (“Lo rifaremo”) – un numero di tutto rispetto se paragonato alla dimensione della nazione catalana.
Dall’altro, è innegabile che la partecipazione sia stata inferiore agli anni passati, segno evidente di una certa frustrazione e stanchezza, a fronte di una “dinamica” che corre il rischio di arenarsi. Molti, nei fatti, in questo periodo rimproverano alla classe politica catalana eccessivi tatticismi e litigiosità.
Quello che è certamente cambiato, rispetto a due-tre anni fa, è che è diminuita la speranza che l’indipendenza possa essere conseguita “sull’onda dell’entusiasmo”, semplicemente mettendo in atto un’escalation di passaggi simbolici e di “giornate storiche”. Si deve ragionare, realisticamente, verso un processo di più lungo periodo – una partita a scacchi con Madrid che potrebbe durare anni.
I risultati elettorali, in primis quello recente delle europee, mostrano che il consenso per i partiti indipendentisti non sembra intaccato, ma il vero problema è che non è chiaro come si possa andare avanti da qui – quali siano i prossimi passi da mettere in atto.
Il governo catalano è, in sé, debole. L’estrema sinistra indipendentista della CUP ha permesso l’investitura del presidente della Generalitat Quim Torra, ma non è interessata ad un sostegno organico al governo, che quindi non ha i numeri per fare passare la legge di bilancio. I tentativi di ottenere un sostegno tecnico da parte di Catalunya en Comù, braccio catalano di Podemos, e del Partito Socialista Catalano non stanno avendo esito.
Del resto anche le due forze politiche che sostengono il governo di Torra, Junts per Catalunya di Carles Puidgemont e la Sinistra Repubblicana Catalana di Oriol Junqueras non appaiono allineati. In un apparente ribaltamento rispetto ai ruoli politici storici è il partito di Puidgemont che oggi pare maggiormente pronto ad alzare il livello dello scontro con Madrid, mentre i Repubblicani appaiono più interessati ad esplorare possibilità di dialogo con il governo spagnolo di Pedro Sánchez.
A complicare le cose, Junts per Catalunya trova poi al suo interno, nel PDeCAT – l’erede più diretto della vecchia Convergencia di Jordi Pujol – una componente più moderata e “istituzionale”.
Qualche scollamento, peraltro, emerge anche tra i due principali motori civici del movimento indipendentista che sono i capifila della grande manifestazione apartitica della Diada.
Se l’Assemblea Nacional Catalana, infatti, è la più propensa a rilanciare nel breve periodo la strategia dell’unilateralità, Òmnium Cultural, dagli anni ’60 la principale associazione catalanista, ritiene che la priorità sia quella di accrescere la base politica, culturale e sociale della rivendicazione, anche unendo indipendentisti e “autodeterministi”, fino a rappresentare quell’80 per cento della popolazione catalana che secondo alcuni sondaggi, indipendentemente da come voterebbe, sarebbe a favore della celebrazione di un referendum riconosciuto.
Sullo sfondo del dibattito a Barcelloma, c’è poi il non meno problematico scenario spagnolo, con il fallimento del dialogo tra i socialisti di Pedro Sánchez e Podemos di Iglesias per la formazione del nuovo governo e l’esito, a questo punto, di un ennesimo ricorso alle urne. E anche qui il vero oggetto del contendere tra le due sinistre è stato proprio il diverso atteggiamento nei confronti della questione catalana.
Insomma, in Catalogna ci troviamo in presenza di una situazione molto complessa che chiama tutti i principali attori ad un esercizio di responsabilità.
Dalla parte indipendentista, è indispensabile saper combinare il mantenimento di un adeguato livello di mobilitazione con il “governo quotidiano” della Catalogna nell’ambito delle attuali competenze del sistema delle autonomie – anche per non fornire pretesti alle forze favorevoli ad una ricentralizzazione.
Sarà anche fondamentale concentrare gli sforzi indipendentisti verso azioni e passaggi che godano del più ampio consenso e mandato nel paese. In questa fase non ci si può permettere di sprecare cartucce, né di generare spaccature che indebolirebbero la causa dell’autodeterminazione.
In questo senso, la principale sfida delle prossime settimane sarà quella di mettere in campo una risposta forte ed il più possibile unitaria alla sentenza contro Oriol Junqueras e gli altri “presos politics” che sarà probabilmente resa pubblica in ottobre. La solidarietà nei confronti di chi sta scontando sulla propria pelle la scelta di dare, in forme non violente, conseguenze lineari alle proprie idee può rappresentare un momento “alto” e “inclusivo” di rilancio dell’azione politica per il “diritto di decidere”.