La battaglia “emotiva” di SuperMario è la “mappatura” del catasto… Ma la vera minaccia non sta nel rivalutare gli estimi vecchi di trent’anni, sta nel volerlo fare cambiando la filosofia alla base del catasto
Pochi giorni fa il premier Mario Draghi rispondeva in modo lapidario, davanti alle telecamere a Bruxelles, all’ennesima domanda sulla riforma del catasto, prevista dall’articolo 6 della delega fiscale all’esame della Camera: “Nessuno pagherà più tasse”. Discorso chiuso, una risata e via.
Apparentemente inequivocabile, eppure non proprio rassicurante alle nostre orecchie, visto che si tratta dello stesso premier che nel luglio scorso affermava che “il Green Pass dà la garanzia di trovarsi tra persone non contagiose”. Un’affermazione smentita dalle evidenze scientifiche disponibili, e di dominio pubblico, già allora.
Ieri, rispondendo al question time alla Camera, Draghi è tornato sulla riforma del catasto, usando le stesse parole di pochi giorni prima: “nessuno pagherà più tasse”, “nessun incremento dell’imposizione fiscale degli immobili”. Ma questa volta il premier si è superato, è persino riuscito a smentire se stesso nell’arco di poche frasi, nel corso dello stesso intervento.
Sì, perché dopo aver ammesso che anche per lui la materia catasto è diventata “emotiva”, si è lasciato prendere la mano, accalorandosi, e in un crescendo di arroganza che ci ha fatto tornare alla mente il colonnello Jessep di “Codice d’onore”, ha involontariamente confessato: servono valori “sensati” su cui basare le tasse. “Gli estimi catastali su cui sono basati i gettiti oggi sono dell’88-89, di 33 anni fa”. Lo scopo, si desume, non è una semplice “mappatura” o ricognizione, ma aggiornare gli estimi per far sì che i gettiti di oggi non siano più basati su valori di trent’anni fa. E una volta aggiornati gli estimi, aumentano a cascata tutti i tributi legati ai valori catastali.
Lo stesso Draghi, per spiegare la sua “operazione trasparenza”, tra le diverse imposte sugli immobili basate sui dati catastali, ha scelto di citare proprio Ici, Imu e Tasi, le patrimoniali da ben 22 miliardi di euro introdotte negli scorsi anni dai precedenti governi, contestandone la base imponibile.
“L’introduzione dell’Ici, l’abolizione dell’Ici, l’introduzione dell’Imu, l’introduzione della Tasi, l’abolizione della Tasi, sono state fatte sempre su valori inesistenti, che non hanno senso, su valori di 33 anni fa. Applicare un coefficiente fisso su valori che non hanno senso per produrre numeri che non hanno senso, deve finire: vogliamo trasparenza”.
È l’ammissione della finalità fiscale della riforma del catasto, finora sempre negata, persino fino a poche frasi prima. E ora? Tornerà la narrazione “sì, ma ad invarianza di gettito”?
Tra l’altro, l’emersione degli immobili “fantasma”, la regolarizzazione di abusi e immobili mal censiti, finalità citate sempre per delegittimare le critiche alla riforma con l’accusa implicita di voler proteggere situazioni di illegalità, sono interventi realizzabili a legislazione vigente.
Ma da come si è accalorato Draghi rispondendo alla domanda vi pare possibile che sia in gioco una semplice “mappatura”? No, è in gioco molto di più. “Il governo non è nato per stare fermo”, ha sbottato il premier.
Il punto non è che si vogliono rivalutare gli estimi vecchi di trent’anni, ma che si vuole farlo cambiando la filosofia alla base del catasto. Il punto centrale che si deve comprendere della riforma i cui criteri e obiettivi sono delineati nella delega – e che probabilmente gran parte dei parlamentari non è nemmeno in grado di afferrare – non è la rivalutazione degli estimi, ma il completamento del passaggio da un catasto reddituale ad un catasto patrimoniale.
Questa è una differenza cruciale, che rende l’opposizione di principio a questa riforma persino più importante di scongiurare aumenti immediati o futuri.
Detto in parole povere, non essendo un tecnico, un catasto reddituale significa che le rendite catastali, su cui sono basate le tasse immobiliari, vengono calcolate sulla capacità dell’immobile di produrre reddito. Ed è su questa capacità che si pagano le tasse. Un catasto patrimoniale prende invece come riferimento il valore di mercato dell’immobile. E quindi avremo una tassa patrimoniale, basata cioè sul mero possesso di un bene e il suo valore di mercato, anche se esso non produce reddito, ma solo spese.
Questo passaggio in realtà è in corso già da anni, almeno dall’introduzione dell’Ici, poi Imu con Monti, e di tutti quei coefficienti moltiplicatori, quei numeretti per Draghi “senza senso”, che altro non sono che un modo per avvicinare la rendita catastale al valore patrimoniale dell’immobile e sulla base di questo calcolare gli importi da versare nelle casse dello Stato.
Ora, è evidente che affiancare alla rendita il valore di mercato (presunto) dell’immobile, come prevede la riforma, permette di fare a meno di quei moltiplicatori “senza senso” che per Draghi non sono “trasparenti”, ma è la filosofia di fondo che respingiamo. Si tratta infatti non solo di dotare il governo di una pistola sempre carica pronta a inasprire la patrimoniale già esistente sugli immobili (22 miliardi l’anno) con estrema facilità, con un click, ma di ratificare, appunto, il passaggio ad un catasto patrimoniale. Come ha denunciato Confedilizia, le parole del premier dimostrano che “si puntava al catasto patrimoniale per avere un bancomat pronto all’uso. E così è stato”.
Che significa? Che molte famiglie a basso reddito che abitano, per esempio, nelle grandi città potrebbero essere considerate ricche per il mero possesso della propria casa di abitazione, da cui in realtà non ricavano alcun reddito (ma solo spese). Anche se venissero risparmiate le prime case dalla tassazione, si vedrebbero aumentare il valore dell’Isee e ridurre, per esempio, l’assegno unico appena introdotto o aumentare le tariffe di altri servizi come le mense scolastiche. Fino alla situazione estrema di non potersela più permettere. Di fondo, quindi, il passaggio ad una tassazione incentrata sul patrimonio immobiliare – raccomandata dall’Ue – significa favorire il passaggio da una società di proprietari ad una società di inquilini.
E noi di Atlantico Quotidiano a questo esito ci opporremo strenuamente, perché sulla proprietà privata diffusa si basano il benessere, la stabilità, il risparmio delle famiglie italiane, il legame degli individui con il loro territorio, la cultura dell’investimento e del mantenimento del valore dei propri beni, la capacità di apprezzare la libertà dalle pretese dello Stato.