Censurano la smoking gun su Biden: Twitter e Facebook non sono più piattaforme neutrali (se mai lo sono state)

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Big Tech information coup! Da tempo Twitter e Facebook, con la scusa della lotta alle fake news, stanno operando una censura strisciante ma sistematica sui contenuti postati dagli utenti sulle loro piattaforme, e sui profili di singoli e gruppi, ma mercoledì hanno attraversato il Rubicone, rendendo non solo evidente ma eclatante il loro tentativo di influenzare la campagna presidenziale americana a favore di Joe Biden (altro che le interferenze russe!).

Su Atlantico Quotidiano ce ne siamo occupati molte volte, segnalando tra i primi la minaccia alla libertà di informazione ed espressione sul web, ma questa è senz’altro la censura più clamorosa per tempi, modi e soggetti coinvolti.

Mercoledì, Twitter e Facebook hanno deciso di impedire ai propri utenti di twittare e condividere l’inchiesta del New York Post sul Kievgate che coinvolge Joe Biden e il figlio Hunter. Twitter è arrivato a sospendere il profilo della portavoce della Casa Bianca e quello ufficiale del gruppo Gop in Commissione Giustizia della Camera, oltre a molti altri pro-Trump.

La notizia emersa dall’inchiesta del New York Post è che il candidato democratico alla presidenza ha mentito quando, nel 2016, aveva negato di essersi mai occupato, da vicepresidente, degli affari del figlio. Le email pubblicate dal quotidiano mostrano infatti che Hunter Biden aveva presentato al padre un dirigente della Burisma, compagnia nel cui board sedeva e al centro di uno scandalo di corruzione in Ucraina. E si dà il caso che l’allora vicepresidente Biden abbia poi preteso e ottenuto da Kiev (esiste un video in cui lo rivendica) la rimozione del procuratore che indagava su quella compagnia. Che il figlio del vicepresidente degli Stati Uniti venisse pagato milioni di dollari, senza avere particolari competenze, da quella compagnia fa sorgere il sospetto che il vero “servizio” reso avesse a che fare più con la possibilità di intercedere presso papà Biden, il quale poi avrebbe usato i suoi poteri per togliere dai guai compagnia e figlio.

E dalle email pubblicate ieri, sempre dal NYPost, è emerso anche che Hunter ha concluso accordi molto redditizi che coinvolgevano la maggiore compagnia energetica cinese, tra cui uno che a suo avviso sarebbe stato “interessante per me e la mia famiglia”.

Ma non è in questa sede che vogliamo ricostruire il caso e valutare nel merito lo scoop del NYPost. Il punto è la censura di un contenuto molto rilevante per l’opinione pubblica a meno di tre settimane dal voto per la Casa Bianca. Il tentativo dei più influenti social media di negare ai propri utenti la possibilità di conoscere e farsi un’idea.

Innanzitutto, va ricordato che il New York Post è il quarto quotidiano Usa per diffusione, non un giornaletto scandalistico o un foglio di complottisti white supremacists.

Questa volta i due social media non si sono accontentati di apporre l’etichetta “fake news” ai tweet che rilanciavano l’articolo, come avvenuto in altri casi allo stesso presidente Trump. Hanno proprio censurato, bloccato il contenuto. Con una motivazione peraltro molto più debole: non potendo smentirlo come “falso”, Twitter ha eccepito che si tratta di “materiale ottenuto illegalmente”. Eppure, non è stato applicato lo stesso standard con l’articolo del New York Times sulle dichiarazioni dei redditi di Trump, certo non ottenute con il consenso dell’interessato. Ammesso e non concesso che il NYPost abbia ottenuto in modo illegale le email di Hunter Biden, quanti scoop fanno i grandi giornali ottenendo “legalmente” il materiale che pubblicano?

Il risultato è che mentre si è potuto diffondere sui social l’articolo del New York Times su Trump a meno di 48 ore dal primo dibattito presidenziale, quello del New York Post su Biden è stato brutalmente censurato – e nemmeno con la giustificazione che fosse un “falso”.

Un altro paradosso della censura operata è che mentre non è possibile twittare e condividere l’inchiesta scomoda su Biden, resta però possibile rilanciare tutti gli articoli della stampa liberal in cui si contesta lo scoop del NYPost.

E che dire di quanto accaduto nel 2016 e 2017 nei confronti di Trump e del suo team con il Russiagate, quando gli stessi Twitter e Facebook hanno contribuito ad amplificare un caso rivelatosi un’operazione di disinformazione della Campagna Clinton? Cosa diremmo oggi, se fosse accaduto a parti invertite?

Basti ricordare come all’epoca la bufala della “golden shower” di Trump fece il giro dei social, proprio mentre gli stessi che l’avevano diffusa – FBI e media liberal – già sapevano che era una bufala. Le email trovate nel pc del figlio di Biden sono forse meno credibili del dossier Steele?

Un esempio più recente. Nemmeno un mese fa – come ha riportato Atlantico Quotidiano, forse l’unico in Italia – Facebook ha censurato due spot pro-Trump sulla base di un fact checking molto discutibile di PolitiFact, un’organizzazione non proprio imparziale. Gli spot sono stati giudicati “perlopiù falsi”, e quindi bloccati, nonostante le affermazioni contenute fossero state riconosciute come vere dagli stessi autori. Dal report dello stesso fact checking, infatti, emergeva che secondo alcuni esperti il piano fiscale di Biden si tradurrà effettivamente in tasse più elevate per tutti i gruppi di reddito, come veniva affermato negli spot con le dichiarazioni dello stesso Biden. Il problema era una non meglio precisata mancanza di “contesto”. Detto altrimenti, gli spot dicevano cose vere, ma era meglio che non si sapesse troppo in giro…

E quanti di voi sanno che a metà settembre, non mesi fa, il capo della Public Policy di Twitter si è unito al transition team di Biden? E che l’ex addetto stampa della candidata vicepresidente democratica, Kamala Harris, è tra i top manager della comunicazione di Twitter?

Tutto questo spiega anche perché Biden può permettersi di condurre la sua campagna dal “basement”, dal seminterrato. Non solo i media – old e new – sono in netta maggioranza dalla sua parte, ma sono militanti in servizio permanente effettivo. Fanno campagna per lui ma anche al posto suo, costruendo la narrazione più favorevole. Chi come Wallace, il moderatore del primo dibattito, risparmiandogli le domande più scomode. Chi giocando con fact checking e algoritmi. E non finirà con il 3 novembre, sono pronti ad andare oltre per assicurarsi del risultato definitivo, come si evince da una inquietante dichiarazione di Mark Zuckerberg dell’8 settembre scorso:

“What we and the other media need to start doing is preparing the american people that there is nothing illegitimate about this election taking additional days or weeks to make sure all the votes are counted”.

Se a queste parole aggiungete che Facebook ha già cominciato a censurare i post sui casi di sospette irregolarità nel voto per posta, c’è davvero da temere per ciò che stanno preparando…

La censura dell’articolo del New York Post è il primo chiaro ed eclatante tentativo, coordinato, da parte dei due più potenti e diffusi social media di influenzare un’elezione.

Atlantico Quotidiano aveva avvertito fin dal principio che investire i social media di portare avanti la crociata contro le cosiddette “fake news”, spingerli ad una “moderazione” invasiva dei contenuti, avrebbe portato a questo, alla censura politicamente motivata. Siamo partiti con fact checking di dubbia imparzialità e siamo arrivati alla censura pura e semplice. Non vogliono combattere le fake news, media tradizionali e social come Twitter e Facebook stanno dimostrando con la loro condotta di mirare al controllo totale della narrazione e al monopolio della disinformazione.

Ma ora si apre ufficialmente la questione della natura stessa dei social media: se Twitter e Facebook possono decidere quali contenuti dei loro utenti bloccare, quali favorire nella propagazione e quali invece penalizzare, con i loro algoritmi, come avviene quotidianamente, allora non sono più piattaforme neutrali, semplici canali di comunicazione e informazione, ma veri e propri editori, che dovrebbero quindi essere soggetti alle normative sull’editoria, mentre oggi la Section 230 li protegge dalle conseguenze legali derivanti dai contenuti pubblicati dai loro utenti.

Come ha osservato l’analista Bruno Maçães, immaginate che un operatore telefonico cominciasse a censurare le vostre telefonate, a farle cadere ogni volta che viene pronunciata una certa frase. Poter traslocare presso un altro operatore basterebbe a farvi dimenticare che un principio di libertà è stato violato?

L’argomento secondo cui Twitter e Facebook sono compagnie private, quindi possono “moderare” come vogliono i contenuti pubblicati sulle loro piattaforme e gli utenti insoddisfatti possono semplicemente traslocare su altri social, non regge. Per due motivi. Primo, perché allora, come dicevamo, dovrebbero essere considerate editori, con tutte le conseguenze che ciò comporta a livello normativo. Secondo, perché ormai la gran parte del dibattito pubblico si svolge su questi social, miliardi di persone si informano e si scambiano idee attraverso di essi, quindi è impensabile che questo processo sia sottoposto a censura mentre aspettiamo il tempo necessario, probabilmente anni, per cui la concorrenza faccia il suo lavoro, mentre cioè qualche altro social più “aperto” si sviluppi e si diffonda.

Ciò che è accaduto mercoledì dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per chi sostiene la necessità di una incisiva politica di “moderazione” dei contenuti da parte delle piattaforme social. Immaginate che la censura decisa da Twitter e Facebook fosse adottata anche dalle altre Big Tech, per non essere da meno. Quell’articolo sarebbe introvabile sul web. Cosa distinguerebbe, nella sostanza, le nostre società dalla Cina, o dall’Iran, per quanto riguarda l’accesso all’informazione e la libertà d’espressione?

Anche perché, se sussistono motivi per cui pensate che un determinato contenuto debba essere eliminato da una piattaforma, perché dovreste pensare che possa essere permesso su un’altra? È ovvio che per coerenza dovrebbe essere bandito da tutte, e possibilmente dal web stesso. Benvenuti in Cina.

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