Jonathan Franzen ha scritto che ogni sconfitta rende più probabile la successiva: una elementare, cristallina verità che pure, nella logica da struzzo che anima una parte del centrodestra, si preferisce negare, rifriggendosi invece le impossibili chimere di un ‘va tutto bene, anzi va tutto benissimo’.
La disfatta elettorale capitolina patita dai partiti del centrodestra e il risultato assai scarso totalizzato da Enrico Michetti avrebbero dovuto conciliare una seria, pacata ma severa analisi sia sugli errori commessi sia sulle prospettive di insieme.
Ed invece, more solito, abbiamo assistito alla solita sagra strapaesana di giustificazioni di comodo e di italico scaricabarile: colpa della Meloni che ha scelto un candidato inadatto, colpa della Lega che si è polverizzata nullificandosi sul territorio capitolino, colpa delle inchieste giornalistiche ad orologeria, e così via.
Intendiamoci: il candidato è stato scelto con enorme ritardo, e si è crudamente rivelato inadatto alla feroce lotta politica capitolina, una lotta che passa non solo per i quartieri e per i mercati rionali ma anche per i contatti organici, non episodici, con alcune categorie produttive, con i sindacati, con il mondo del pubblico impiego.
Michetti, pur volenteroso avvocato, non sembra essere riuscito ad uscire dalla oleografia di simpatico tribuno radiofonico, più abituato ai monologhi che non all’interscambio dialogico, anche acceso, e alle polemiche coi suoi competitor: tanto che, oggettiva riprova, il suo risultato elettorale è stato persino inferiore al totale delle liste che lo sostenevano, testimoniando lo scarso appeal del nome e della figura.
Poco commendevole, va detto, nella fase di ballottaggio, la fuga di chi lo aveva proposto e che invece sembra averlo scaricato poco onorevolmente al proprio destino, forse pensando con questa ritirata strategica di far dimenticare o di obliare almeno parzialmente la propria responsabilità di scarsissima talent scout.
D’altronde se la Meloni e FdI non volevano bruciare il loro (presunto) appeal nazionale scendendo direttamente in campo con qualche big del partito, avrebbero dovuto comunque pensare che una scelta fortemente sbagliata riferibile comunque sempre a FdI si sarebbe, inevitabilmente, riverberata sul partito meloniano.
Nonostante voci interne al partito si siano addirittura dette soddisfatte del risultato raggiunto, festeggiando la medaglia di rame dell’essere primo partito della destra capitolina, solo un super-masochista o una persona incapace di comprendere la realtà fattuale e politica potrebbe trovare di che gioire in questo sfacelo.
D’altronde, una bella soddisfazione davvero quella di essere primi tra gli sconfitti, senza alcun accesso al potere, fuori da qualunque gioco, dopo anni e anni di opposizione spesi per accreditarsi come capace e responsabile forza di governo.
Sarebbe poi il caso di rammentare, laddove la scelta di perdere fosse stata dettata da qualche suicida calcolo politico per non inquinare le possibilità di vittoria alle politiche del 2023, visto che come noto Roma è piazza ostica e che governarla fa perdere consensi:
- Roma è al centro di vari progetti e piani del Pnrr, e pertanto il suo sindaco si troverà fattualmente al centro del teatro politico-istituzionale nazionale, a gestire copiosi fondi e un ritorno politico e di immagine immenso.
- Il sindaco si troverà a gestire tutti i tavoli di organizzazione del Giubileo 2025 e di Expo 2030, con tutto ciò che ne consegue in termini di risonanza politica e di importanza nazionale.
- Il Pnrr rappresenta il più cogente vincolo esterno sperimentato dal nostro Paese: l’idea di poter liberamente capitalizzare i sondaggi (cioè, ad oggi, fuffa) come se un successo elettorale per quanto schiacciante potesse poi tradursi in automatico nella possibilità di scegliere i ministri che si vuole, per un partito non accreditatosi in seno al governo di unità nazionale, ovvero emerso col placet delle istituzioni europee, è fantasia ai limiti della più sfrenata utopia. Il prossimo governo dovrà fisiologicamente proseguire sulla strada tracciata da questo, dando rassicurazioni sui progetti, sui piani e soprattutto sui… nomi.
In quanto alla Lega, a Roma è implosa. Desertificata, resa nulla dalle sue stesse contraddizioni e da una classe dirigente evanescente, mal radicata sul territorio, presa da faide interne e da gare spicciole contro competitor interni più che rivolte verso l’esterno.
Il tracollo elettorale della Lega capitolina è la perfetta manifestazione della frantumazione del sogno salviniano di una Lega di ordine nazionale: in questo senso, perfetto laboratorio di mancanza di idee, visione, programmi, con un insieme abborracciato di correnti, correntine, correntucole, e con la necessità di portarsi dietro in processione Salvini per ogni quartiere, fontanella, voragine stradale.
Nonostante la strada spianata di una amministrazione Raggi semplicemente disastrosa, nonostante Gualtieri fosse un rivale tutt’altro che imbattibile ed espressione di un’area politica che Roma l’ha già governata per anni senza risolvere problemi, la Lega non è riuscita a farsi percepire come un soggetto politico credibile.
Il movimento salviniano a Roma tra le altre cose paga il gravissimo errore di essersi voluto affermare come soggetto aggregatore di istanze politiche da lumpenproletariat, più che da periferia contro ZTL. E il lumpenproletariat, si sa, perché lo sosteneva pure Marx, è volubile, pre-politico, capriccioso. Non ci si può fare troppo affidamento, e lo sanno bene alcuni candidati nei Municipi che si sono visti alla fine della fiera mancare proprio quei voti su cui invece, in teoria, tanto avevano contato.
Così facendo poi, e non avendo un programma proprio, coerente e omogeneo, il centrodestra non ha saputo coltivare i rapporti con i soggetti istituzionali che detengono le redini del potere cittadino, finendo per rivolgersi a quei medesimi ceti da sempre corteggiati pure da FdI.
Non a caso Michetti si è trovato, surrealmente, a dover sbandierare il suo amore per la natura pubblica delle disastrate società partecipate capitoline, oltre che per tassisti e commercianti ambulanti, ovvero per tutte quelle categorie un tempo oggetto del desiderio della ‘destra sociale’, ovvero dell’iper-protezionismo statalista, e che ormai il 90 per cento degli elettori romani vedono come fumo agli occhi.
Ed è anche vero che in questa stellare frammentazione dei partiti e delle correnti, un vero centrodestra come coalizione non si è saputo affermare. Ognuno andava per sé, facendosi la propria corsa elettorale in solitaria, senza pensare come e a chi portare voti.
Residua la questione della criminalizzazione mediatica. L’assalto alla Cgil, la incresciosa manifestazione politica in pieno sabato di silenzio elettorale, le inchieste giornalistiche di Fanpage sul ‘pericolo fascista’, in generale una fortissima polarizzazione politica.
Però il centrodestra a Roma non ha certo perso per questo. E d’altronde si farebbe bene a farci il callo, perché le tattiche della sinistra sono note: la ricerca del nemico esterno come fattore di aggregazione interna e per superare le proprie divisioni è un evergreen da quelle parti, e il terrore ‘fascista’ ha sempre esplicato egregiamente la propria funzione.
Dalla inchiesta di Fanpage al vittimismo sulla caducazione temporanea del ddl Zan, il clima politico che si respira è esattamente quello di un ‘noi contro loro’, di una chiamata alle armi quasi ideologica, del passaggio dall’avversario al nemico.
Non casualmente, fiutata l’aria favorevole, la sinistra ha anche iniziato a coltivare l’idea, non peregrina per quanto maramalda, di candidare Zingaretti nel sicurissimo e rossissimo collegio elettorale di Roma Centro, come successore del neosindaco Gualtieri.
La mossa finirebbe per far tornare al voto anche in Regione Lazio, la cui scadenza elettorale fisiologica sarebbe invece nel 2023. Zingaretti non solo non ha smentito alcuna indiscrezione sulla possibilità di vederlo candidato, e certamente nel caso eletto deputato, ma sembra lasciar trasparire un forte possibilismo.
Perché la sinistra dovrebbe cedere lo scettro del comando in Regione prima del tempo? Ma semplicemente perché ha fiutato il sangue. Il sangue di un centrodestra confuso, stanco, debole, ossificato, privo di spina dorsale e di seria classe dirigente. D’altronde, i tripudianti sconfitti delle elezioni capitoline non fanno che ripetere ‘in Regione si vince in provincia, non a Roma’.
Salvo non accorgersi di aver perso pure a Latina, e non rammentando comunque che Roma rimane una città di tre milioni di abitanti ed epicentro di potere: questo significa che la campagna elettorale regionale avverrebbe nella tenaglia di una Regione amministrata dalla sinistra e di una Capitale… pure.
Solo dalle parti del centrodestra non riescono a comprendere cosa significhi questo. L’esercizio diretto del potere, rapporti organici coltivati da posizione istituzionale con categorie produttive, una pervasiva e capillare diffusione di promesse sostanziate dal reggere il potere, il travaso continuo di dirigenti tra Regione e Comune.
Il centrodestra laziale finirà con l’avere ancora una volta enorme difficoltà nella scelta di un candidato, e poi nella definizione di un programma. Perché i programmi, si sa, sono una seccatura, portano via tanto tempo, e poi pazienza se non si viene eletti.
Altra difficoltà enorme sarà quella su come impostare la campagna elettorale, considerando che le stesse province scricchiolano in maniera preoccupante.
Probabilmente in una tornata elettorale così particolare il candidato dovrebbe essere di estrazione politica, ma una figura presentabile e non eccessivamente divisiva. La gente non vota più per opinione, o almeno col voto di opinione non vai oltre una certa soglia, che certo non basta per vincere e come ha dimostrato bene il voto capitolino: serve un politico ma che sappia presentarsi come civico e come tecnico, che non parli per slogan e che sappia come relazionarsi coi vari mondi che popolano la Regione e le sue città, anche per puntare alle sempre crescenti quote di astenuti e di disamorati che non cercano facili slogan ma progetti e visioni concrete per porre soluzioni ai problemi quotidiani.
In secondo luogo, sarebbe il caso che i partiti mettessero da parte faide e squallide beghe interne. Se ad esempio FdI pretenderà di esprimere il candidato in quanto partito più rappresentativo o forte nel Lazio, dovrà esprimere un candidato valido e che convinca, che convinca davvero, i propri alleati: al contrario sento circolare già oggi dei nomi votati alla più brutale e umiliante delle sconfitte, la cui unica logica è quella di essere candidati di ‘bandiera’. Una cosa, arrivati a questo punto, deve essere chiara al centrodestra: perdere in maniera sonante anche il Lazio, sarà perfetto viatico per uscire sconfitti alle elezioni politiche.