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Che fare? Zingaretti alla ricerca di una seconda gamba e l’uscita a freddo di Calenda

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Come al solito la ditta Cacciari & Co. l’ha sballata alla grande, perché l’alleato l’aveva già trovato, applicando la ben nota massima che “chi è nemico del mio nemico è mio amico”, cioè i 5Stelle, che si erano dati la sveglia dopo il celeberrimo Convegno di Verona. Di lì in poi non avevano cessato di marcare stretto il focoso ministro dell’interno, toccando tutti i tasti di una vera campagna di primavera – la questione morale, la contiguità a CasaPound, la alleanza sovranista ecc., facendosi, se non proprio perdonare, certo ridimensionare la “assoluzione”, contro la loro stessa natura, concessa al leader della Lega alla Camera dei deputati. Quindi l’occasione di una Santa Alleanza anti-salviniana era più che matura, da sfruttare in questa stessa legislatura, addirittura senza un passaggio elettorale.

Con la lezione del poi c’è da riconoscere a Zingaretti l’intelligenza di non farne niente, per scelta sua o per l’influenza esercitata dalla corrente renziana, anche perché c’era da contrastare la presunta concorrenza dei 5Stelle al Pd nella stessa area elettorale, vista come possibile alla vigilia, se pur smentita all’indomani della consultazione. Ora, però, se c’è una lezione per il Pd, è che da solo non è auto-sufficiente per costituire un’alternativa competitiva, tanto più se si considera il risultato ottenuto dovuto quasi unicamente all’assorbimento dell’elettorato di LeU, sicché a sinistra ha ormai ben poco da recuperare. Il che è ben presente a Zingaretti, che parla di costruire una alleanza, senza però far capire se questo debba essere inteso come una estensione della capacità dello stesso Pd di rappresentare anche un elettorato moderato, oltre a quello dei quartieri alti delle grandi città, oppure come una apertura ad un partito di centro, distinto e autonomo. Probabilmente l’ambizione riguarda entrambi gli obiettivi, ma il secondo certo non meno importante del primo, anzi più importante, dato che una inversione di rotta da “sinistra-sinistra” – quale è la fisionomia assunta dal Pd nella recente campagna elettorale – a “sinistra-centro”, non è attuabile, data l’attuale deriva antirenziana del partito.

Dunque, scartata l’opzione di una attenzione privilegiata ai 5Stelle, all’indomani di una elezione che vede vittorioso un centro-destra a guida leghista, sì da dar vita ad una doppia opposizione, distinta ma contigua, tanto da poter dar luogo a una qualche unità d’azione; scartata questa scelta sostenuta come residuale dai nostri cervelloni, resta da guardare alla lista della Bonino, con la sua piccola dote attorno al 3-4 per cento. Cosa senz’altro fattibile, ma quella dote è troppo legata alla persona della leader, quindi costruita a misura della sua credibilità, sì da poter difficilmente contare come una robusta seconda gamba. Ma non manca l’aspettativa che anche i Verdi si sveglino qui da noi come in Francia e in Germania, con un ambientalismo aggiornato che non si esaurisca come quello dei 5Stelle in una raffica di no, destinati ad essere rimangiati a fronte della realtà produttiva ed occupazionale.

Che fare, dunque? Non è una idea nuova quella espressa apertamente da Calenda, di costituire con l’uscita dal Pd della corrente, chiamiamola “moderata”, per non battezzarla come renziana, il nocciolo duro di un nuovo partito. Si tratterebbe di una uscita a freddo, cioè con una previa intesa con la direzione del Pd, con tanto di esplicitazione della finalità perseguita, cioè di creare questa benedetta seconda gamba di almeno un “sinistra-centro”. Beh, io non ho buona memoria, ma quella di una uscita a freddo non mi sembra avere precedenti significativi, il che di per sé non è risolutivo. Ma è probabile che non ce ne siano per sua implicita contraddizione, se pur si potesse pensare che un partito, qualunque partito, sia disponibile a tagliarsi da solo un membro, addirittura mettendo così in luce, come nel caso del Pd, la sua occultata fisionomia di “sinistra-sinistra”. Qual è l’intima contraddizione? Se un partito nasce solo per esplicita filiazione da parte di un altro, cioè senza una rottura più o meno traumatica, non può pensare di ingannare l’elettorato con un programma già a priori formulato in chiave di una futura alleanza col suo originario genitore.

Se c’era un momento per farlo era prima della consultazione europea, ma allora era in gioco la stessa sopravvivenza del Pd, se fosse mai sceso sotto la percentuale delle elezioni politiche. Ora non dovrebbe tanto giocare sull’immediata tenuta del Governo, perché il Pd non è pronto, oggi come oggi, per essere un vero competitore, praticando un antisalvinismo a livello di pettegolezzo, di cui è esempio eclatante la Repubblica, ed esorcizzando come fascisti consapevoli o meno un terzo dell’elettorato. Ma deve chiarire alcune posizioni sulla immigrazione (come governarla, senza scaricare tutto sulla ripartizione in un’Europa che non la vuole), sulla famiglia eterosessuale (come promuoverla, senza confonderla nel guazzabuglio delle famiglie arcobaleno), sull’Europa (come difenderla, senza pensare che la mancata ondata sovranista valga come conferma della vecchia politica di austerità). Se è vero che l’elettorato è volubile, ciò che conta è il messaggio semplice e identitario che si riesce a trasmettere: perché se il populismo mitizza il popolo come unico detentore della sovranità, sì da sottovalutare le istituzioni di equilibrio istituzionale, l’anti-populismo scarica il popolo come non affidabile, tanto da giungere a ritenere di poterne fare a meno, in quanto mosso dalla pancia e dall’ignoranza. Ma, questa è la democrazia, uno che conta uno stupido; dopotutto il sistema meno peggio, come si suole dire.

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