MediaQuotidiano

Chi ha detto che il personaggio di successo (meritato o meno) debba diventare guru e capopòpolo?

4.4k
Media / Quotidiano

Ciò che lascia perplessi è l’identificazione del personaggio di successo (meritato o meno) nel ruolo di capopòpolo, di guida spirituale, di modello da seguire per forza, e persino di grande industriale… Il rovesciamento dei termini valutativi delle persone celebri sembra ormai cosa fatta. Normalmente si dovrebbe diventare celebri quando si sia fatto qualcosa di memorabile, ma oggi pare che la celebrità sia il presupposto irrinunciabile per provare a fare qualcosa d’importante nella vita. Se accettiamo che persino l’industria ed il commercio siano capeggiati dalle persone celebri più che dalle persone capaci non ne verremo fuori

Basare la rispettabilità ed il consenso generalizzato sul nulla, o quasi nulla, è uno dei peggiori mali del terzo millennio. Potrà anche sembrare normale che la Tod’s, società quotata in borsa e di caratura internazionale, abbia nominato nel suo cda l’onnipresente Chiara Ferragni, consorte dell’altrettanto celebre rapper Fedez, ma qualcosa non sembra rispondere alla logica. Competenza, merito, esperienza imprenditoriale e societaria si attribuiscono ormai d’ufficio a chiunque sia popolare ed amato dai giovani e quindi famoso sui social. Piacere ai giovani è oggi imprescindibile per qualsiasi produttore di beni di largo consumo. Produrre qualsivoglia oggetto o bene per una platea diversa da quella giovanile sembra sia fare impresa di serie B. Finiti i tempi dei Valletta, dei Marchionne, dei Garrone, dei Del Vecchio, tanto per citare qualche autorevole esponente dell’imprenditoria italiana nel mondo, oggi prevale la regola ferrea del primato del consenso giovanile, sempre che si voglia essere considerati grandi imprenditori.

Se diamo per scontato che fare grande impresa significhi detenere una rilevante quota di potere, i potenti di oggi stanno in massima parte al comando delle grandi società commerciali. La turbo-economia del terzo millennio sembra adeguarsi a questi principi. Qualcosa di straordinario è accaduto anche nell’economia teorica. Messi in soffitta gli Stuart Mill, gli Smith, i Keynes (quest’ultimo forse ancora lievemente in auge per effetto delle frequentissime citazioni, perlopiù a sproposito), gli economisti classici sono stati letteralmente surclassati dai grandi imprenditori che parlano di economia sul web con il superamento della tradizionale dicotomia tra chi parla d’impresa e di chi fa impresa, e ciò parrebbe essere soltanto un dato positivo. Ma se i grandi imprenditori che piacciono ai giovani si limitassero a produrre e a vendere, tutto sommato, sarebbe poca cosa, e magari anche positiva. Purtroppo i nuovi capitalisti, i nuovi “padroni”, per dirla con un termine caro ai sindacalisti della triplice negli anni ’70,  vogliono dettare ai giovani le norme comportamentali per fare un “mondo migliore” rispetto ad una altro “peggiore” di cui i giovani non conoscono quasi nulla… e gli stessi nuovi ceo non sembrano essere dei mostri di cultura.

E come reagiscono le “forze sociali” (altro termine caduto in disuso)? Persino i più inveterati comunisti ed anti-capitalisti tra gli intellettuali d’assalto dei nostri giorni non hanno saputo sottrarsi al fascino discreto della t-shirt nera in seta del supercapitalista Steve Jobs che scorrazzava sul palco, parlando pochissimo delle caratteristiche tecniche dei nuovi prodotti di Cupertino (particolari che molto probabilmente conosceva solo a grandi linee), tuttavia gratificando la sua platea adorante con moltissime banalità di forte presa (“stay hungy, stay foolish”) ed altre frasi fatte di sapore “sociale” che vorrebbero spingere giovani tutti vestiti allo stesso modo a comprare tutti gli stessi prodotti di quella marca. Troppo capitalista Jobs per piacere all’esigente intellettuale di sinistra? Niente paura, s’inventa un mai esistito garage in cui due ragazzini squattrinati, con attrezzature di fortuna e libri presi in prestito alla biblioteca parrocchiale, inventarono e realizzarono i prototipi dei prodotti della Mela e siamo a posto, giusto per conferire il salvacondotto di un valoroso passato proletario ai padroni del vapore di oggi, quel tocco di poraccitudine che tanto piace agli altrettanto ricchi compagni di oggi, quelli che le mani non se le sporcano di sicuro, anzi le curano almeno quanto gli immancabili tatuaggi etnici e le sopracciglia disegnate con cura maniacale.

Perché il guru del perfetto comunistello da apericena equo e solidale deve essere anche un modello nel fisico, una fonte d’ispirazione per il vestiario, il linguaggio, le pose e le faccette ammiccanti che oggi indicano la strada da seguire, la versione aggiornata della lunga marcia di un Mao Tse Tung, troppo buzzurro, inelegante, proletario, cinese e poco fotogenico per piacere a quelli che vogliono rimanere folli ed affamati. Succede così che quel certo tipo di giovane intellettuale di sinistra dei nostri giorni nemmeno sappia cosa fosse il libretto rosso di Mao, per non parlare della mappazza del Capitale di Marx, ma di certo terrà sul comodino quella incredibile raccolta di mediocrità del libro di Steve Jobs, quello con la copertina in bianco e nero e la celeberrima foto del grande imprenditore americano fotografato in posa da pensatore con la barba incolta. Meglio fare i comunisti di successo, se proprio bisogna fare i comunisti per contare qualcosa, piuttosto che accontentarsi della tessera della Cgil in tasca…

Mi fate un favore? Vi garantisco che sarà un esempio perfetto di ciò che intendo dire. Cercate su Google “libro di Steve Jobs” e troverete, accanto al libro originale, parecchi altri libri dai titoli francamente imbarazzanti, tra i quali: “Essere Steve Jobs”, “Nella testa di Steve Jobs”, “Pensare come Steve Jobs”, “Steve Jobs – Lezioni di leadership”. Incredibile, siamo giunti a tanto. Non stupiamoci poi se la coppia Fedez-Ferragni riscuota tanto successo in ogni sua astuta iniziativa commerciale. Quelli vogliono diventare potenti e ci stanno riuscendo a pieno. Siamo noi che dei potenti abbiamo almeno letto qualche biografia a chiamarli al potere, sono i politici a coccolarli per risollevare partiti stracotti, sono gli industriali 4.0 (quelli che, perlopiù, hanno qualche problema con la lingua italiana, tanto per intenderci…) a volerli tra i loro più stretti collaboratori. Stupisce che persino un volpone di lungo corso come Diego Della Valle possa aver co-optato nel consiglio di amministrazione della sua azienda (con fatturato di oltre due miliardi di euro) la prezzemolina Ferragni. Stupisce, ma sta nel solco delle manie industriali contemporanee, ossia nel trend delle operazioni di facciata più che di sostanza.

Nella recentissima Pasqua 2021, le uova di cioccolato più apprezzate in Italia sono state, appunto, quelle griffate Chiara Ferragni. Va benissimo, ci mancherebbe, ognuno scelga di fare impresa nei settori che preferisce e ciascun consumatore sia libero di scegliere nel libero mercato. Ma spaziare dalle ciabatte ai profumi, dai dolci ai prodotti di bellezza è sempre stata un’impresa a forte rischio, soprattutto quando si mettano in commercio beni disparatissimi e calibrati sulle preferenze e capricci personali dei giovani testimonial “che piacciono ai giovani”. Ad esseri sinceri, non mi pare che Lapo Elkann, allorché gli venne concesso di avere un qualche ruolo operativo nel gruppo Fiat ebbe poi risultati concreti, quelli che pesano nei bilanci, come non mi pare che le successive fatiche imprenditoriali dello stesso Lapo abbiano davvero sfondato sul mercato. Passata la moda effimera dei primi anni, intrapresa la strada dove l’imprenditore solido (e non dico di successo) deve affermarsi e contrastare efficacemente, prima fra tutte, la strabordante concorrenza cinese e fare utili più che fatturato.

Per quanto non abbia in feroce antipatia i coniugi Ferragnez (come amano essere chiamati), a condizione che non parlino di politica perché del tutto impreparati e palesemente orientati nella direzione in cui sembra tirare il vento, pur dando loro atto che (pare) facciano molta beneficenza (che se fatta con meno clamore sarebbe anche più corretta), pur riconoscendo loro che sanno talvolta rendersi simpatici, ciò che mi lascia perplesso è l’identificazione del personaggio di successo (meritato o meno) nel ruolo di capopòpolo, di guida spirituale, di modello da seguire per forza, e persino di grande industriale. Da che mondo è mondo sono qualità che raramente si concentrano nella stessa persona e gli esempi sono moltissimi in ogni settore. Il rovesciamento dei termini valutativi delle persone celebri sembra ormai cosa fatta. Normalmente si dovrebbe diventare celebri quando si sia fatto qualcosa di memorabile, ma oggi pare che la celebrità sia il presupposto irrinunciabile per provare a fare qualcosa d’importante nella vita. Se accettiamo che persino l’industria ed il commercio siano capeggiati dalle persone celebri più che dalle persone capaci non ne verremo fuori.

Purtroppo l’economia è fatta di numeri, di fredda contabilità più che di simpatia degli imprenditori, di grafici che mettano gli utili più in alto dei costi e di prospettive economiche che tendano alla consolidata crescita ed alla garanzia dell’occupazione, più che ai picchi dovuti all’incertezza delle mode del momento. E ancora una volta sono proprio quelli più orientati a sinistra a creare le nuove elites, quelle che storicamente combatterono i loro ispiratori ideologici, creando inconsciamente delle classi privilegiate che, allegramente fregandosene delle difficoltà dei più disagiati, continuano a esibire sfrontatamente la loro vita di grande lusso e le loro ricchezze guadagnate in tempi brevissimi. Più esibiscono i loro privilegi e più piacciono.

Diciamolo chiaro e tondo: soprattutto ai giovani e giovanissimi interessa principalmente fare soldi e condurre una vita agiata ed esibita più che costruirsi onestamente un futuro e meritare il rispetto, magari soltanto dei loro cari. I giovani aspirano in preoccupante percentuale a diventare come tali nuovi ricchi. Forse ha ragione Della Valle: la Ferragni conosce i giovani, dice. Se ciò sia vero e sufficiente per aumentare la qualità e l’entità del nostro export lo vedremo. Ma le mode passano ed i miti spesso si consumano nella fiammata del loro smisurato ego. Resta la qualità, la coerenza, l’onestà di produrre cose ben fatte che valgano i soldi che costano. Bene se il processo produttivo e commerciale porti benessere a chi lavora in quell’azienda e persino l’orgoglio di appartenervi, ma qui ci si fermi. Se vogliamo consigli andiamo dal prete, o da chiunque altro il cui ruolo sia quello di consigliare, possibilmente gratis. Se invece vogliamo un buon prodotto, che sia ben fatto, durevole e confacente alle qualità promesse possiamo accontentarci anche di imprenditori che spendano meno quattrini per corteggiare gli influencer e magari qualcosina in più sulla qualità. Che poi sia Barbablu a produrre quell’oggetto, non c’importa un accidente. Soprattutto se il signor Barbablu ed i suoi testimonial riservino i consigli di vita ai loro figli e fratelli minori, anche perché questa storia dei trentenni che vogliono insegnare la vita a chi ha il doppio dei loro anni francamente ha stufato. Ed anche questo dimostra il poco rispetto dei nuovi guru per il prossimo.

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it
la grande bugia verde