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La Chiesa di Bergoglio si arrende alla dittatura cinese

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Non ha avuto, almeno fino a ieri, la risonanza che avrebbe meritato lo storico accordo tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese siglato sabato 22 settembre. Un accordo storico quanto misterioso. Il testo è “segreto”, scrivono i vaticanisti, e dettagli non sono ancora emersi. Il che non fa ben sperare… Dalle scarne e generiche dichiarazioni ufficiali si apprende che riguarda “la nomina dei vescovi”, che è “provvisorio” e “prevede valutazioni periodiche circa la sua attuazione”, che per la Santa Sede ha “un obiettivo pastorale” e non politico, per avere vescovi riconosciuti anche dalle “legittime autorità civili del loro Paese”.

Qualche indizio sui contenuti dell’accordo, però, si può ricavare dalla decisione di Papa Bergoglio, alla vigilia della firma, di esonerare dalla scomunica sette vescovi “ufficiali”, nominati cioè dal regime di Pechino, fino ad oggi mai riconosciuti dalla Santa Sede. Ad un ottavo, deceduto da oltre un anno, ha sciolto la scomunica. E come se non bastasse, ha assegnato al segretario della conferenza episcopale creata e controllata dal regime la nuova diocesi di Chengde, istituita sempre da Pechino nel 2010 e fino ad oggi non riconosciuta dalla Santa Sede. Facile dunque immaginare che in base all’intesa i candidati a vescovo dovranno ricevere, in un modo o nell’altro nel processo di selezione, il timbro “approved” dal Partito comunista cinese.

Insomma, un accordo indubbiamente storico. Ma storica è anche la resa, di fatto, della Chiesa di Bergoglio alla dittatura comunista cinese. Che purtroppo, è vero, in questi anni può contare su molti ammiratori qui in Europa che la vedono come faro del libero commercio contro l’America del cattivone e protezionista Donald Trump.

Sul suo blog il vaticanista Sandro Magister ha parlato di “sottomissione”. Di sicuro l’accordo segna il punto più basso del Pontificato di Papa Francesco da quando arrivò a giustificare il raid jihadista contro la redazione di Charlie Hebdo (ricorderete le sue parole: “se uno offende la mia mamma gli aspetta un pugno, è normale”).

Accordo storico anche perché contraddice una storia di secoli, durante i quali la Chiesa ha lottato per affermare e difendere le sue prerogative (la nomina dei vescovi e l’istituzione di diocesi, appunto) nei confronti del potere temporale, facendo un favore a se stessa, al potere politico e all’intera civiltà occidentale. Magister ricorda a proposito il canone 377 § 5 del codice di diritto canonico: “Per il futuro non verrà concesso alle autorità civili alcun diritto o privilegio di elezione, nomina, presentazione o designazione di vescovi”.

E la comunità cattolica in Cina? C’è chi, come il vescovo di Qiqihar, Giuseppe Wei Jingyi, ordinato nel ’92 a soli 34 anni dopo un paio d’anni ai lavori forzati, accoglie con favore l’accordo (“qui lo aspettavano tutti”), come riportato da La Stampa. Così come Pietro Lin Jiashan (84 anni), un altro “illegale” per il regime con una decina d’anni di detenzione alle spalle. Chi plaude all’accordo e alla politica di appeasement voluta da Papa Bergoglio, dopo gli anni della fermezza di Wojtyla e Ratzinger, costati indubbiamente cari in termini di sofferenze, sottolinea l’importanza dell’unità della Chiesa cattolica in Cina, la necessità di superare la lacerazione tra l'”Associazione patriottica cattolica”, la chiesa ufficiale voluta e guidata da Pechino, e la cosiddetta chiesa “sotterranea”, con tutte le molteplici sfumature tra le due.

Ma c’è anche chi, come il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, mette in guardia sul prezzo di questo tentativo di riconciliazione: “Stanno consegnando il gregge nelle fauci del lupo. Un incredibile tradimento”. E chiede le dimissioni del segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, artefice dell’accordo (“non ha fede, è un buon diplomatico in senso molto secolare e mondano”). Il comunicato? “Un capolavoro nel dire niente con tante parole” e la richiesta di “una obbedienza tamquam cadaver“, dice Zen in una nota pubblicata su Asianews.

Certo, magari per fedeli e religiosi “obbedienti” ci saranno maggiori spazi di libertà, la possibilità di uscire dalla semi-clandestinità. Ma mai la libertà di promuovere, attraverso l’evangelizzazione, la centralità e i diritti della persona rispetto a qualsiasi potere politico e diritto positivo. E c’è da chiedersi: che fine faranno i tanti religiosi scomodi e perseguitati? Saranno ora banditi ed emarginati anche dalla Chiesa di Roma, per far piacere ai vertici del Partito comunista cinese?

D’altra parte, si tratterebbe di un trionfo da non mantenere certo segreto, se Papa Bergoglio fosse riuscito con questo accordo a sottrarre i cattolici cinesi alla stretta autoritaria avviata negli ultimi anni da Xi Jinping su tutte le religioni e le minoranze. Il concetto espresso dal presidente cinese all’ultimo congresso del partito, nell’ottobre 2017, riportato da Civiltà Cattolica in un articolo a sostegno dell’accordo, è piuttosto inequivocabile: “Noi attueremo pienamente la politica di base del Partito per le questioni religiose, sosterremo il principio che le religioni in Cina devono avere un orientamento cinese, e forniremo una guida attiva alle religioni, in modo che possano adattarsi alla società socialista“.

Poco ma sicuro: quella cinese continuerà ad essere una non libera Chiesa in non libero Stato.

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